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  • Il quarto appuntamento con il podcast “5 Under35 Raccontano la Post-pandemia” è dedicato all’Europa e alla Solidarietà europea, alle risposte che le Istituzioni europee hanno posto al centro dell’azione politica ed economica dell’Unione per fronteggiare la crisi sanitaria provocata dal Covid-19 e le sue implicazioni economiche.

    Il vento anti-europeista ha ripreso a soffiare prepotentemente sul nostro continente, travolgendo il progetto europeo. Ma quali sono le reali risposte che l’Europa ha dato agli Stati membri? Come stanno reagendo a questa emergenza le Istituzioni europee? Stanno davvero dimostrando di non essere all’altezza? O è la solita retorica anti-europeista e sovranista che cerca di sfruttare le paure e la rabbia dei cittadini per raggiungere i propri scopi politici?

    Di questo e molto altro ne ho discusso con l’On. Brando Benifei, 34 anni, Eurodeputato e capo-delegazione del Partito Democratico al Parlamento Europeo, nel 2016 tra i 30 politici under30 più influenti d’Europa secondo Forbes.

    La puntata è disponibile anche su Spreaker, Spotify, Google Podcast e Apple Podcast.


    Per il 10° anniversario del mio blog, ho pensato di creare un nuovo progetto. Breve ma, spero, utile per chiunque vorrà approfondire alcuni temi cruciali, alla luce dell’emergenza sanitaria provocata dal Covid-19.

    Ho incontrato (virtualmente) cinque under35 e con loro ho dialogato sul prossimo futuro. Attraverso le loro esperienze e le loro competenze, abbiamo provato ad immaginare il mondo che ci attende fuori dalla nostra finestra. L’emergenza sanitaria, prima o poi, finirà. Ma le scelte che si stanno concretizzando in queste settimane incideranno sulle nostre vite anche quando del Covid-19 resterà solo un vecchio e brutto ricordo.

  • In una fresca e nuvolosa domenica di agosto torno sul blog e penso proprio che farò di tutto per rimanerci senza più soste come quella fatta negli ultimi mesi. Provo a raccontarvi un po’ cosa è successo e cosa succederà da ora.

    Mi sono laureato. Eh già. Ho staccato da tutto e tutti per tre mesi, per potermi concentrare a pieno ritmo sull’università. Districarsi tra l’ultimo esame e la tesi non è stato facile, infatti la mia magrezza, accentuata ancor di più dallo stress, forse, ne è la testimone chiave.
    Ora sono, come si suol dire, dottore magistrale in Giurisprudenza. Ho terminato i miei studi e, ancora oggi, non ne sono del tutto cosciente.

    La mia dissertazione finale, in Diritto Costituzionale comparato, ha riguardato un tema che molto spesso ho trattato sul blog: i diritti della persona sulla Rete, titolo: “Internet, Costituzione e Privacy: dalla nonregulation alla tutela dei diritti della persona“. È stato davvero molto divertente approfondire questo argomento e spero vivamente di poter continuare a farlo, vista la sua particolare importanza alla luce del sempre più ampio utilizzo della Rete nei servizi essenziali e sulla forte presenza dei social network nella nostra vita quotidiana.

    Ho messo un punto alla mia vita da studente, anche se è un punto mobile, poiché studenti si è sempre nella vita. Può sembrarvi stupida come affermazione, ma sono convinto nell’importanza estrema del perenne studio e nell’imparare ogni giorno sempre cose nuove.

    Passando dall’Università a tutto il resto, credo che ci sia molto da fare e, nei prossimi mesi, sarà sempre più pressante l’esigenza di capire e capirsi, nelle scelte e nella lettura del mondo circostante.

    Nell’ultima metà del 2017 ci saranno un po’ di appuntamenti interessanti: dai congressi di circolo a quelli provinciali e regionali del PD, fino alle decisioni importanti sul destino delle città in cui amministriamo o siamo all’opposizione, in vista delle Amministrative 2018.

    Parlando di Amministrative, l’anno prossimo Noci torna alle urne per la scelta del suo Sindaco. Non mi esprimo su nulla, perché vorrei inquadrare meglio il panorama frutto degli ultimi 5 anni. Lo farò, prima di tutto, da cittadino e poi da “addetto ai lavori”. Non posso negare, però, che la macchina politica è stata oleata per bene e che diversi siano già partiti. Dalle sponsorizzazioni all’immancabile ubiquità dei futuri candidati ad ogni evento di pubblica rilevanza, il revival ha sempre una sua ragion d’essere e quella ragione sta nell’amnesia di noi elettori, pronti a uccidere per un’opinione diversa dalla nostra, ma assolutori imperterriti di una classe politica che ne fa di cotte e di crude sulla nostra pelle e il futuro della nostra Terra.

    Ma la tradizione vuole che, per tutto agosto, la politica venga considerata dormiente e, allora, nel frattempo che la sua maschera pubblica continui a farsi un pisolino, sotto le coperte c’è un gran movimento ed è forse arrivato il momento di sciogliere ogni indugio.

  • È terminato quello che in molti hanno chiamato Congresso, ma a cui io non riesco a darne una definizione.

    Non riesco a darne una definizione consona con quanto voleva rappresentare perché, nei fatti, non ha rappresentato nulla di quanto avrebbe voluto. Festival della Democrazia, l’hanno chiamata quella di ieri. Eppure io non ho avuto modo di divertirmi, né tantomeno di vivere un clima di festa. Certo, le ragioni sono più profonde di quelle che proverò a spiegare qui, ma pensate davvero che il PD, ieri, abbia recuperato il suo slancio? Io non credo proprio.

    Partiamo dal principio, da quando questa pagina ha cominciato ad essere scritta.
    Un congresso chiesto da più parti, a cui si poteva dare un valore incredibile, una grande campagna di ascolto palmo palmo, in ogni angolo del Paese. Dal piccolo comune alla grande città, dai disoccupati ai commercianti in difficoltà, passando per gli imprenditori e il mondo delle start up. Invece è sembrato che tutto ciò dovesse avvenire dopo, che c’era una questione interna da risolvere e archiviare quanto prima, per dare il ben servito a chi in questi anni ha cercato di sollevare criticità ricevendo, nella gran parte dei casi, un “gufo e rosicone” di ritorno.

    Elezioni primarie con rito abbreviato, da fine febbraio al giorno di ieri, 30 aprile. Direte voi: ma 2 mesi sono più che sufficienti per un congresso. Certo, un congresso come passaggio dovuto non aveva forse neanche bisogno di 2 mesi, eppure questo doveva essere un momento ancor più alto di una semplice elezione di un segretario di partito. Siamo l’unica forza politica, in Italia, ancora capace di dare delle risposte concrete alle domande che arrivano dalle parti sociali, dal mondo dei soggetti in formazione, dai disoccupati, dagli esodati, dal mondo dell’imprenditoria e del lavoro autonomo. Eppure ci siamo dimenticati quale sia la vera funzione di un congresso: riformulare la proposta politica, cercando sì di eleggere un leader che guidi, ma di attivare i percettori della comunità che costituisce il partito e di trarre forza dalle diverse vedute.
    Quasi due milioni di persone hanno svolto, per un giorno, il lavoro di notaio: metterci il bollo della democrazia su una cosa che ormai era scontata sin dall’inizio. Ma, chiariamoci, non dico che questo congresso avrebbe avuto valore se a vincere non fosse stato Renzi, anzi, dico che, a prescindere da chi avesse vinto, qualcosa non sarebbe quadrata comunque e così è oggi.

    Per rendere chiaro quanto io sollevo, pongo una domanda a cui chiedo di darci una risposta, tutti quanti insieme: siamo in grado, oggi, di tornare nelle periferie delle città? Se domani ci fossero le elezioni politiche, le borgate, i quartieri lontani dai ricchi centri voterebbero per il Partito Democratico? Quali risposte abbiamo dato loro? Quali sono le prospettive nuove, venute fuori da questo congresso, per tutti coloro che il PD l’hanno votato ma che oggi non ci pensano due volte a scegliere altro o, addirittura, a non andare a votare?
    Possiamo davvero continuare a credere che l’unico modo per recuperare consenso sia quella di spostarsi un po’ a destra e un po’ a sinistra, a seconda dei temi e delle convenienze? Non credete sia il caso di mettere a terra un disegno che abbracci un’idea di società?

    Nella storia dell’umanità, chi ha lasciato un segno indelebile nel mondo in cui ha vissuto, sono tutti coloro che hanno immaginato un disegno lungimirante e strutturato di futuro, capace di coinvolgere coloro che non credevano mai di poterlo essere; di anticipare i tempi; di non andare a tentoni. Da Steve Jobs a Martin Luther King Jr., allo stesso Elon Musk – tanto citato da Renzi – e ai nostri Aldo Moro ed Enrico Berlinguer, e altri. Tutti loro sono stati in grado di vivere nel presente ma di immaginare un futuro chiaro, concependo non solo l’obiettivo ma anche come raggiungerlo, passo dopo passo.
    È questo che il PD deve fare, è quello che avrebbe dovuto fare in questo 4° Congresso. Ciò non è avvenuto, ma sono certo che ogni sostenitore delle tre mozioni direbbe il contrario. Il punto non è una mozione o due che abbiano colto il loro compito, ma è la comunità del Partito Democratico che avrebbe dovuto, prima di ogni altra cosa, prendere coscienza di quello che rappresenta. Certe volte ce lo dimentichiamo e ricordarcene diventa sempre più difficile.

    Ma veniamo ad un punto cruciale che vede la giornata di ieri al centro. Le primarie aperte per scegliere il Segretario nazionale del PD non funzionano. Non funzionano perché non ci sono gli strumenti per poter contrastare, in modo sistematico e oggettivo, un fenomeno ormai chiaro e diffuso ovunque: l’inquinamento del voto da parte del centrodestra e della destra.
    È quello che è successo ieri: si sono registrati casi di intromissione di diversi esponenti della destra, anche la più estrema, durante le operazioni di voto. La cosa assurda è che non parliamo di gente “mandata” a votare qualcuno, ma di esponenti che, in prima persona, hanno partecipato al voto, violando in modo netto e plateale non solo l’art. 10 del Regolamento per il Congresso, ma anche l’art.2 dello Statuto del Partito Democratico, come di seguito.

    Possono partecipare al voto per l’elezione del Segretario e dell’Assemblea nazionale tutte le elettrici e gli elettori che, al momento del voto, rientrano nei requisiti di cui all’art. 2, comma 3 dello Statuto, ovvero le elettrici e gli elettori che “dichiarino di riconoscersi nella proposta politica del Partito, di sostenerlo alle elezioni, e accettino di essere registrate nell’Albo pubblico delle elettrici e degli elettori”. – Art. 10 comma 1, Regolamento per l’elezione del Segretario e dell’Assemblea nazionale del PD.

    Sono escluse dalla registrazione nell’Anagrafe degli iscritti e nell’Albo degli elettori del PD le persone appartenenti ad altri movimenti politici o iscritte ad altri partiti politici o aderenti, all’interno delle Assemblee elettive, a gruppi consiliari diversi da quello del Partito Democratico. Gli iscritti che, al termine delle procedure per la selezione delle candidature, si sono candidati in liste alternative al PD, o comunque non autorizzate dal PD, sono esclusi e non più registrabili, per l’anno in corso e per quello successivo, nell’Anagrafe degli iscritti. – Art. 2 comma 9, Statuto del Partito Democratico (modificato dall’Assemblea nazionale del 18 luglio 2015).

    Consiglieri comunali di gruppi consigliari (che col centrosinistra, addirittura, non c’entrano assolutamente nulla), esponenti storici di altre forze politiche (tra cui, addirittura, dirigenti nazionali degli stessi) hanno partecipato al voto, venendo a scegliere un segretario di un partito che non è il loro, che criticano quotidianamente dall’altra parte della barricata e a cui non dedicano un briciolo del loro impegno. Alla faccia dei militanti, dei dirigenti e di tutti gli elettori che credono ancora nel PD.
    Qui, come è evidente, non è solo una questione di regole, ma di etica. Certamente, l’etica non è da tutti, benché meno da chi ha avuto la faccia (e mi fermo sull’aggettivo della faccia) di presentarsi al seggio chiedendo di votare. Alcuni sono stati bloccati, altri no, inficiando delle intere operazioni di voto, a causa della violazione delle regole.

    Altro aspetto, riguardo ieri, è quello delle ricevute di pagamento dei 2€. È un diritto per l’elettore averlo, ma il blocco dell’erogazione ha impedito il controllo del voto da parte di qualche scagnozzo fuori dai seggi, con il telefono alla mano, chiamando uno ad uno i “portatori insani di voti”, una partecipazione coatta alla democrazia.

    Non mi meraviglio di nulla, ma se vi siete chiesti, in questi due mesi, perché io non stessi partecipando attivamente al congresso – contro la mia natura di essere sempre in prima fila nelle battaglie – beh..ora lo sapete. Perché non avevo l’entusiasmo e la spontaneità che caratterizzano, sin dall’inizio, il mio impegno politico. Un congresso “tanto per farlo”, in cui le posizioni da prendere erano dovute – “perché è giusto così” – non era quello che mi aspettavo e parteciparvi supinamente non era affar mio.

    Ma ora bisogna andare oltre, provando a guardare lontano. Matteo Renzi ha raccolto il 70% dei consensi. Spero abbia capito che lui non è il padrone di nulla e che il Partito va gestito collegialmente, coinvolgendo le minoranze e ponendo al centro della discussione le istanze che dalle stesse arriveranno, senza prenderle a schiaffoni o liquidandole in un tweet. Speriamo di non dover utilizzare quel famoso detto che dice “il lupo perde il pelo ma non il vizio”. Chiedo un maggiore e maturo impegno, anche, alle minoranze, di cui faccio parte, ad oggi: la funzione della minoranza è più importante di quella della maggioranza. È l’ABS che permette al partito di non sbandare e finire contro un muro a 200 all’ora.

    Grazie di cuore, infine, a tutti coloro che ci sono stati: ai volontari, ai militanti e agli elettori che hanno creduto e credono ancora in quello che facciamo. Solo voi siete la forza di questa comunità e sempre lo sarete.

  • Il congresso del PD deve essere un momento di confronto serio, non una cerimonia flash in cui mettere fine alla richiesta di una consistente parte del partito di celebrarlo, come fosse un contentino.

    Il fronte progressista occidentale è in piena crisi identitaria, come si pensa di sciogliere tale crisi, da noi, con un mini-congresso?

    La discussione deve partire dai circoli, dalle piazze, dalle strade. Basta bracci di ferro, basta arroganza e messaggi di sfida.

    Sto vedendo diversi esponenti del mio partito muoversi non per ragioni politiche, ma per meri attriti personali. Ma cosa pensate, che i cittadini ci comprendano? Che restino a guardare questo teatrino?

    Serve serietà e voglia di discutere. Se Renzi vorrà celebrare il congresso in poco tempo, vuol dire che non ha capito a cosa serva un congresso. Non ha capito cosa sia un partito.

    Sono fiducioso, però, e spero che si riesca a rimettere in moto i principi dello stare insieme e della natura democratica del PD.

  • Ed è giunto il momento di fare “sintesi”, di raccogliere le idee e cercare di dare una lettura personale di quanto accaduto durante queste Elezioni amministrative.

    Il dato è limpido: il Partito Democratico ha ricevuto uno schiaffone dietro al collo da parte degli elettori.

    Partiamo da quello che è successo a Roma. Sapevamo per certo che il primo turno avrebbe reso chiara la spaccatura nella Capitale, a fronte di ben 13 candidati sindaci, anche se quel 35% di Virginia Raggi era un chiaro segnale di attrazione dell’elettorato verso l’unica candidata che se pur espressione di un movimento nazionale, non aveva nulla a che vedere, personalmente, con dimensioni nazionali ma che sguazzava in un ritornello che ben conosciamo: “mandiamo a casa Renzi”. Gli altri candidati, Meloni, Fassina, Di Stefano, Adinolfi hanno utilizzato la Capitale come l’ennesimo trampolino del proprio movimento. Il “povero” Marchini, che se pur rispecchiava, anche solo in apparenza, il candidato slegato da dinamiche “estraraccordo anulare”, ha pagato il prezzo dell’incoerenza per il mutamento dal “liberi dai partiti” al “con i partiti, più di prima”.
    Roberto Giachetti – ex radicale, deputato PD e vice Presidente della Camera, già capo gabinetto al Comune di Roma con Francesco Rutelli – era una via di mezzo tra la traduzione nazionale del voto e le dinamiche locali ma, nella Capitale, una e l’altra sono tra loro intrecciate, per sfortuna dei romani.
    Il PD a Roma è stato una zavorra, l’ha detto lo stesso candidato sindaco e questo è un effetto chiaro e più che meritato, mi viene da dire, a seguito dell’irresponsabilità che il PD romano e quello nazionale hanno avuto sulla vicenda riguardante l’allora sindaco Ignazio Marino, con quel colpo di coda nel far cadere un’amministrazione che, forse, a questo punto, era meglio risollevare e proteggere, piuttosto che licenziare in quel modo (ricordiamo le dimissioni in massa dei consiglieri comunali).
    Giachetti ha fatto un ottimo lavoro, riuscendo ad arrivare al ballottaggio, contro ogni pronostico. Merito suo e di tutti coloro che l’hanno affiancato in questa competizione elettorale, ma dinanzi alla protesta dei cittadini incazzati dalle vicende pregresse, non c’è super candidato che tenga. Che sia ben chiaro a tutti e soprattutto a Renzi.
    Oggi, Virginia Raggi e il M5S hanno una responsabilità immensa: dovranno provare a risollevare la Capitale dallo stato in cui riversa, e per capire se ci riuscirà sarà indispensabile conoscere la squadra di assessori che l’affiancherà in Campidoglio. Tecnici? Politici? Competenti o amministratori alla prima esperienza?

    Per passare alla seconda città nella lista, qui il dato è da leggere in una chiave differente rispetto a quello della Capitale.
    A Milano, Beppe Sala vince le elezioni al ballottaggio. Una vittoria risicata: 20mila voti di scarto (51,70% contro 48,30%). Amministrazione uscente di centrosinistra, la quale ha portato ottimi risultati a casa nel primo mandato. Ma cosa paga, allora, il centrosinistra, nell’aver ricevuto uno scarto di vittoria così sottile?
    Giuliano Pisapia aveva, durante le Amministrative 2011, travolto la politica milanese. Dato come outsider alle primarie del centrosinistra, le vinse contro il candidato Stefano Boeri del PD (poi diventato suo assessore per poco tempo) ed altri candidati. Quel momento di confronto/scontro aveva acceso gli animi dei cittadini milanesi, riuscendo a trainare una nuova politica nella Capitale morale del nostro Paese, portando quella coalizione a vincere le elezioni contro ogni previsione. Risultato? Le primarie avevano fatto il loro dovere. Perché dico questo: se penso alle Primarie, la prima cosa che mi viene in mente è “lo strumento per eccellenza per rendere possibile l’impossibile”.
    Mi spiego meglio: le Primarie funzionano quando non sono scontate e non sono un mero atto notarile. Perché questo sono diventate, oggi: uno strumento per rendere ufficiale ciò che sapevamo da tempo essere ufficioso. Un “facciamo le primarie per legittimare ciò che abbiamo già deciso”. Questo è successo a Milano e, per inciso, anche a Roma.
    Sì, perché sia a Roma che a Milano le primarie sono state questo: da una parte Giachetti, candidato a delle primarie grigie, senza un vero competitor all’altezza della sfida; dall’altra Sala, nominato commissario straordinario per l’EXPO e diventato, magicamente, il candidato migliore per la coalizione di centrosinistra a Palazzo Marino. Il nuovo sindaco di Milano partecipa alle primarie sapendo già di aver vinto e il periodo di campagna elettorale fino al giorno dei gazebo diventa una semplice attesa per l’inaugurazione della campagna ufficiale del candidato sindaco e della sua coalizione.
    L’unico che ha cercato di rappresentare una discontinua continuità (gioco di parole voluto) rispetto all’Amministrazione Pisapia è stato Pierfrancesco Majorino, una candidatura vista con interesse ma che aveva il sapore della testimonianza, sin dagli albori.
    Ma il centrosinistra milanese paga la non ricandidatura di Pisapia. L’ex sindaco avrebbe dovuto ricandidarsi. Non l’ha fatto per ragioni personali e nessuno può sindacarne la legittimità, ma che non abbia avuto i suoi effetti sul voto mi pare una cosa poco probabile.

    Un fil rouge, quello delle primarie, che ci porta dal Centro al Nord, per poi tornare al Sud, nella Città partenopea, dove il PD non è neanche arrivato al ballottaggio, lasciando il posto al sindaco uscente, Luigi De Magistris, e al candidato del centrodestra, Gianni Lettieri. Il primo ha doppiato il secondo, al ballottaggio, dimostrando come ancora una volta i sentimenti e i mal di pancia non si percepiscono dai giornali o da dichiarazioni sporadiche di passanti al mercato rionale, ma nelle urne. De Magistris ai napoletani piace e quel 66,5% lo rende evidente e inciso col fuoco.
    Ma tornando al nostro filo rosso, a Napoli il PD ha celebrato le primarie tra l’evergreen Antonio Bassolino e la soldatessa Valeria Valente, inviata da Roma per vincere le elezioni? Certo che no. Per contrastare il possibile ritorno di Bassolino? Certo che sì. Quindi primarie dal sapore di congresso di partito, dove nella tracotante narrazione di una “Napoli che guarda al futuro”, l’unico vero obiettivo era una lotta all’homo politicus del già sindaco di Napoli, senza una reale proposta per la Città e senza il minimo carisma e polso necessari per competere con un sindaco uscente con, checché ne dicano alcuni, carisma e abilità, non pervenuti alla candidata democratica. Pensate che i cittadini non se ne rendano conto? Suvvia.

    Punito il partito a Napoli, così come a Roma, risalendo la Penisola ci imbattiamo nella rossa Bologna, da oggi più sul rosé. Virginio Merola, sindaco uscente, la spunta al ballottaggio, contro la candidata Lucia Borgonzoni, della Lega Nord. Merola, 5 anni fa, vinse al primo turno con il 50,5%. Il 5 giugno scorso si è fermato al 39,48% con, a seguire, la Borgonzoni al 22,27% e il candidato 5 Stelle, Massimo Bugani, al 16,54%. Bisognerebbe capire attentamente i flussi dell’elettorato, per capire cosa è realmente successo nel capoluogo dell’Emilia-Romagna, anche se il dato dell’affluenza è allarmante: dal 71,4% del 2011 al 59,65% del 1° turno del 5 giugno (al ballottaggio il dato è sceso ulteriormente al 53,17%).
    Qui il punto è uno: se la rossa Bologna sfancula il centrosinistra e il PD è perché la spia che segnala come su molte questioni ci siamo spostati al centro è accesa e lampeggia insieme a noi. Elettorato con paraocchi? No, grazie. E meno male che è così, in modo da aiutarci a capire che c’è qualcosa che non va e a fermarci per guardarci i piedi e riflettere. Inevitabilmente ha influenzato anche l’attività amministrativa della Giunta uscente, quindi il dato è ibrido e si intreccia tra dimensione nazionale e locale, come Roma, se pur in un’ottica differente.

    Ciò che lascia perplessi è il risultato a Torino. Lì qualcosa è andato storto, eppure la città piemontese, rispetto a qualche anno fa, oggi si presenta più all’avanguardia, migliorata in diversi aspetti. Dai trasporti ai servizi ai cittadini, passando per il sistema rifiuti e il decoro urbano. Qui è inevitabile l’influenza del sentimento politico nazionale. Piero Fassino ha pagato il prezzo di essersi avvicinato troppo al Presidente del Consiglio e di rappresentare “il vecchio”, tanto da rimanerne folgorato e vedersi sfilare la seggiola di primo cittadino, da parte di Chiara Appendino, senza particolari demeriti. Si poteva fare di più? Certo, ma non vedersi riconfermato il ruolo di sindaco è un segnale forte e, accostandolo al dato dell’affluenza, comparandolo con quello di 5 anni fa, è ancora peggio: dal 66,53% (1° turno 2011) al 57,17% (1° turno 2016). Ma se vogliamo proprio farci male, possiamo dire che Fassino, alle scorse Elezioni, vinse al 1° turno con il 56,7%. Lo stravolgimento politico è ormai in fase avanzata e la direzione centrifuga dei flussi di voti dal PD e centrosinistra è palese: il M5S si rafforza, nutrendosi dell’elettorato di centrodestra ormai senza una bussola e un elettorato di centrosinistra che da un senso complessivo al suo voto, infilandoci dentro anche il dissenso verso il Governo. Inutile prendersi in giro.

    Questo è uno spaccato del Paese. È vero, le Amministrative riguardano le città, il voto serve per eleggere i sindaci e i consigli comunali, non per dare un giudizio al Governo di turno. Ma questo solo sulla carta o, quantomeno, nei piccoli centri, dove la dimensione locale è molto più forte delle dinamiche nazionali e dove il voto è più personale che politico.
    Nelle competizioni delle grandi città, di cui ho provato a dare una mia lettura, il voto politico c’è e più è grande la dimensione delle Elezioni più quel particolare si fa intenso. Un esempio tra tutti Roma, dove se il voto fosse stato sulla persona del candidato sindaco, non riuscirei a trovare elementi di comparazione tra Giachetti e Raggi, se non il semplice fatto che sono entrambi di Roma. Una persona di specchiata onestà e, soprattutto, competenza dimostrata negli anni, contro una consigliera comunale con 3 anni appena di esperienza all’opposizione e qualche click sul web. È chiaro che non si è votata la persona del candidato sindaco, ma cosa e chi quel candidato rappresentava.

    La domanda sorge spontanea: siamo sicuri che l’Italicum vada ancora bene a Renzi? Forse si è reso conto che il ballottaggio (anche a livello nazionale) porta a polarizzare l’elettorato tra elettori del PD e i “tutti contro il PD”, rappresentato dal M5S che riesce a catalizzare i voti anche del disperato centrodestra – che non riesce a trovare candidati in grado di contrastare quelli del PD, tranne sporadici casi – pronto a sostenere l’unico baluardo opposto al PD che ce la fa. Basta guardare i flussi di voti nella Capitale, dove Meloni, Salvini, Fassina e Marchini hanno votato per la Raggi, non per qualità della candidata e del programma elettorale, ma per una mera logica di contrapposizione al Governo e al Partito Democratico.

    Fatte tutte le analisi, ora arriviamo alla diagnosi: il Partito Democratico è diventato un comitato elettorale pro-Governo e senza più un’anima. C’è chi lo dice da tempo, ma mai è stato realmente ascoltato, anzi, addirittura tacciato per gufo e rosicone.

    Matteo Renzi non è in grado di essere, allo stesso tempo, Segretario del partito e Presidente del Consiglio. La coincidenza tra le due cariche, di cultura anglosassone, è un sogno politico che coltivo, ma riconosco nelle capacità di chi ricopre questi incarichi la possibilità di realizzarlo a pieno e nel migliore dei modi. Non è il caso nostro. Almeno attualmente.

    Un partito consegnato nelle mani di due vice segretari non ha senso. Intendere l’essere segretario di partito come io intendo il calcetto del sabato pomeriggio (pur non toccando un pallone dai tempi di D’Alema Presidente del Consiglio) è deteriorante per il PD e i militanti. Fare il Segretario non può essere un hobby. Il partito ha bisogno di qualcuno che se ne prenda cura a tempo pieno.

    Renzi faccia attenzione nell’addossare le responsabilità ai soli dirigenti locali. In parte è vero, l’establishment locale è gerontocratico in molte parti del nostro Paese, i circoli sono in mano ai detentori dei pacchetti di tessere e il tesseramento online ha accentuato e reso più facile il controllo delle terminazioni nervose del PD. Quindi c’è bisogno di un cambiamento radicale del modo di intendere il partito.

    Un soggetto politico schiacciato sulla figura del leader carismatico l’abbiamo vissuta già. Era dall’altra parte della staccionata, l’abbiamo sempre criticata e abbiamo visto la fine che ha fatto. Il Partito Democratico ha una particolarità che lo ha sempre reso diverso dagli altri soggetti politici: sopravvivere ai suoi leader. E così deve essere sempre.
    Detto questo, è fondamentale non legare il partito alla figura di Renzi o del suo Giglio magico. Ho letto alcune dichiarazioni di esponenti di spicco del Partito Democratico che ritiene il momento di eleggere un segretario a tempo pieno (bene), un segretario che sia un riflesso di chi detiene la premiership (male) e vede nella Boschi tale soggetto (malissimo).
    Vi spiego le parentesi: Un segretario a tempo pieno è fondamentale, soprattutto per un partito come il nostro – strutturato, con militanti veri e una complessità invidiabile; Un segretario scelto perché compatibile con il Presidente del Consiglio è  avvilente, tanto vale tenersi i due vice segretari e ci risparmiamo la farsa di eleggere una “guida” per la nostra Comunità politica; se questa persona, poi, debba essere la Boschi, non c’è elemento che non mi porti a pensare che chi asserisca ciò abbia una considerazione del ruolo del segretario come un semplice funzionario di partito o, peggio, un mero volto con cui presentarsi in pubblico. Per carità, il Ministro Boschi ha sue competenze, è una figura politica di rilievo che ha lavorato per dare alla luce una riforma costituzionale incisiva, sotto molti aspetti, ma il segretario di un partito deve avere una cultura politica altissima, più alta, addirittura, di quella di chi ricopre il ruolo di Premier. Lungimiranza, visione d’insieme, metodo di condivisione e, al tempo stesso, di rispetto della storia politica della Comunità che rappresenta, sono tutti elementi imprescindibili che il Ministro per le Riforme costituzionali non detiene a pieno.

    La scelta del segretario sarà un passaggio fondamentale per la rigenerazione del PD, ma se vogliamo che questa abbia gli effetti sperati è necessario un congresso aperto all’interno, ma chiuso all’esterno. Basta primarie aperte per la scelta del segretario nazionale. Modifichiamo lo Statuto e leviamo di mezzo quell’articolo che ritiene il segretario il candidato naturale del PD alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Sostituiamola con l’obbligo di procedere, lì sì, a primarie aperte e regolamentate, per la scelta del candidato premier, alla quale potranno partecipare tutti coloro che si riconoscano nei principi fondanti della Carta dei Valori e nel progetto del centrosinistra.
    Basta primarie aperte per questioni che riguardano il partito: un metodo che ha svilito il significato della tessera e del sentirsi militante. Poniamo fine alla possibilità di far scegliere il leader politico del partito a chi dello stesso si dimentica per 364 giorni all’anno, e si interessa a questo solo durante tali consultazioni.
    Diamo, inoltre, finalmente, ai militanti la possibilità di esprimersi sui temi rilevanti sulle quali il partito deve interrogare la sua base. Lo possiamo fare attraverso i referendum interni – online o nei circoli – dove e come riteniamo più opportuno.

    È forse giunto il momento di affrontare tali problemi una volta per tutte, anche perché non possiamo permetterci il lusso di voltare lo sguardo dall’altra parte, in vista, oltretutto, dell’appuntamento del Referendum costituzionale di ottobre prossimo.

    Riposta la lente d’ingrandimento, è giunto il momento di rimboccarsi le maniche.
    Scusate se ho scritto molto. Avrei voluto dirvi ancora di più.

  • Pare che la rottamazione stenti a prendere piede all’interno del PD. Se a livello nazionale si è ottenuto un evidente rinnovamento della classe dirigente, a livello locale poco è stato fatto e poca attenzione viene destinata a questo tema. Se n’è accorto anche Richetti, che anti-renziano proprio non è.

    Quando Renzi diede il benservito a Letta, una delle ragioni era quella dello sdoppiamento della velocità. Da un lato il pimpante Renzi, neo segretario del PD, dall’altro l’allora Premier Letta, con uno stile diametralmente opposto, più cauto e lento. Era inaccettabile una situazione del genere, bisognava correre e il Governo doveva correre quanto il PD. Oggi, l’autista è uno solo, peccato che il PD abbia smesso di correre e che sia sprovvisto di un navigatore capace di indicare una direzione precisa e giusta.

    A livello locale, dal regionale ai circoli, la situazione è quella prospettata, grosso modo, da Richetti e che molti, prima di lui, avevano provato a testimoniare. Qui non si tratta dell’ennesima contrapposizione tra Nord e Sud, perché la situazione che vive un circolo in provincia di Bari è la stessa di quella di un altro circolo in provincia Torino.

    Ma quindi? Capite bene che non riuscirei a giustificare il fatto che, per l’ennesima volta, il principale luogo di discussione sui temi da sviluppare come partito, non siano i circoli e le assemblee del partito, ma una, ennesima, convention di area.

    Renzi deve decidere: o fa il Segretario come fa il Presidente del Consiglio, oppure decida di far tornare il partito a congresso e far scegliere il nuovo segretario nazionale. Per il bene di tutti.

  • Caro manifestante, provo pena per te. Manifestare con la forza delle proprie idee e con le proprie convinzioni è ciò che di più forte si possa dimostrare in una piazza. Tu hai agito da debole come debole è il messaggio che hai voluto lanciare, a differenza di quello che credi.

    Bruciare una bandiera è una cosa vergognosa. Non si bruciano le bandiere, non si brucia nulla. C’è una linea sottilissima che separa l’essere civile dall’essere un barbaro. Tu hai preferito essere un barbaro e probabilmente non sapevi neanche perché oggi ti trovavi in piazza. Forse sei stavo coinvolto per fare “bordello” e per divertirti un po’ a sfasciare qualcosa.

    Caro studente che hai bruciato la bandiera del mio partito, provo pena per te e anche vergogna. Pena perché un gesto del genere non può che essere frutto di una mancanza di idee; provo vergogna perché tu, caro studente, sei della mia stessa generazione e non posso accettare che la mia generazione sia vista come una massa di incendiari senza cervello.

    Manifestavi per la Buona Scuola? Parlami della riforma, caro studente e spiegami cosa ha suscitato in te l’istinto di dar fuoco ad una bandiera a cui persone dedicano la vita. Dimmelo, caro studente, perché è questo il limite da non superare mai e tu l’hai superato, vantandotene.

    Caro studente, non ti preoccupare, a farmi pena non sei da solo: nella lista ci sono anche tutti coloro che condividono il gesto che hai messo in scena, che sia un parlamentare (come Vilma Moronese del M5S) o un semplice cittadino accecato dalla rabbia e dalla intolleranza.

  • Nichi Vendola ci riprova. Dopo Human Factor, adesso è il turno de “La Sinistra che cambia”. Stesse tonalità e stessi contrasti di colore, forse il font è leggermente diverso, ma per il resto siamo lì. Nulla di nuovo.

    Eppure Vendola dice di voler fare sul serio questa volta (quindi le altre volte si giocava, mi par di capire).

    “C’è bisogno di una sinistra di governo, capace di saper andare oltre le divisioni e oltre gli steccati” ideologico-opportunistici che hanno movimentato la vita a sinistra, nella politica italiana, da ormai anni (aggiungerei io, se proprio devo).

    Eppure tutto ciò nasce dall’ennesimo steccato, dall’ennesima divisione tra una parte della sinistra e tutto il resto della realtà che ci circonda. La Via Lattea dei partiti della sinistra pareva ormai fermo nella sua espansione, ma dopo l’ennesimo “non ci sto”, una nuova stella brilla nel cielo. Che si chiami Possibile o SEL o Coalizione Sociale, poco è importante, alla fine ci sarà sempre qualcosa che dividerà uno dall’altro e la ricerca della perfezione, dell’omogenea visione politica porterà sempre ad una frantumazione.

    Certo, si potrà ottenere una congiunzione di sigle, di movimenti e partiti in una sola “casa”, ma il cemento con cui quella casa sarà costruita è, diciamocelo, l’ennesima logica di contrapposizione, l’ennesima crociata verso il governo di turno, verso le politiche e le riforme. Bene la contrapposizione politica, ma quando è marcata da una visione chiara di cosa si vuole e di come si vuole realizzarla. Tutto il resto è pura rissa.

    Per dirne una, in conclusione, sembra una continua di quel teatrino messo in scena a Roma. Sinistra Ecologia e Libertà aveva chiesto le dimissioni di Marino, come aveva evidenziato il post a nome di Fratoianni, poi fatto sparire, mentre si esultava nel momento in cui le dimissioni arrivarono per davvero, accorgendosi, dopo qualche giorno, che Marino era diventato “l’anti-Renzi” romano e quindi un ripensamento sul Sindaco dimissionario era più che necessario, arrivando addirittura a non dimettersi davanti al notaio per far decadere l’Assemblea capitolina; raggiungendo la fantascienza quando, o per gioco o per qualche problema logico-cognitivo, tramite le agenzie si faceva girare la notizia che Ignazio Marino, prima simbolo del PD e di Mafia Capitale (quest’ultima viziata da una forte ignoranza sul tema), fosse in ballo come possibile candidato delle sinistre nella Capitale.

    Roba da matti!

    Nell’attesa, assistiamo all’ennesimo cambiamento di una sinistra che non cambia mai.