Io l’ho fatto il cameriere. Una stagione estiva di molti anni fa. Andavo ancora al liceo.
Iniziavo il turno alle 18 in punto e terminavo alle 6 del mattino. Qualche volta anche più tardi. 12 ore della mia giornata le passavo a lucidare bicchieri, portare piatti a tavola e poi, sul finire, lavare tutto il locale insieme ad altri ragazzi, mentre fuori il sole ritornava.Il tutto, per qualche banconota e la magra soddisfazione di aver guadagnato qualcosa per potermi pagare, senza chiedere aiuto a nessuno, una cena fuori o potermi togliere qualche sfizio.
Ma al netto di quanto guadagnassi, ciò che rimane evidente è il tempo che quel mestiere sottrasse al mio unico periodo di libertà, lontano dagli impegni scolastici e dalla frenesia che riprendeva ogni inizio settembre. Eppure l’ho fatto per mia scelta, perché è così che dovevano andare le cose quella volta.
Provo grande stima verso chi fa questo lavoro ma io, oggi, non l’avrei più fatto.
E non perché ci si attacca al denaro o si è “choosy”, come qualcuno ci apostrofò qualche tempo fa, ma perché è vero quel che dice, suo malgrado, lo chef La Mantia: il covid ha cambiato le priorità delle giovani generazioni.
Ed è giusto così.
Il Covid ha messo in evidenza come il tempo passato a fare le cose che ci rendono felici e ci gratificano sia preziosissimo. Per tale ragione, il lavoro non deve esserci a prescindere ma deve essere di qualità e deve avere rispetto della vita del lavoratore.
Un lavoro alienante, che assorbe tutte le energie e il tempo del lavoratore, non è vero lavoro. È un supplizio e 1400€ di paga non valgono quanto il desiderio di essere davvero felici.
La concezione del lavoro e del tempo è cambiato, perché è cambiato il mondo. E chi non se ne rende conto è destinato a scontrarsi con la realtà e, presto o tardi, le sue convinzioni andranno in frantumi. Come una macchina durante un crash test.
A tutti i tycoon, gli imprenditori e gli chef che riempiono pagine di siti e giornali con le loro dichiarazioni contrariate, una chiave di lettura e un consiglio: le condizioni esterne non sono modellabili a piacimento di chi le subisce, ma sono frutto di un cambiamento collettivo, spinto da fenomeni sociali anche di grande portata. La pandemia è tra questi. O il modo di fare impresa cambia e si adatta alle nuove esigenze, oppure sarà presto soppiantato da un nuovo paradigma sociale che terrà fuori tutti coloro che sono stati ciechi e cinici davanti all’evidenza.
Ieri, su Gli Stati Generali, ho scritto un post circa le dichiarazioni di Poletti sui CV e il calcetto.
Due considerazioni e una proposta. Trovate tutto qui. Oppure di seguito.
“Il rapporto di lavoro è prima di tutto un rapporto di fiducia. È per questo che lo si trova di più giocando a calcetto che mandando in giro dei curriculum”.
Questa è la frase incriminata di Giuliano Poletti, il Ministro del Lavoro del Governo Renzi, prima, e del Governo Gentiloni, ora.
Interrogandomi sul significato di tale affermazione, volendo, anche solo per un secondo, abbandonare il terreno della polemica, non ho trovato alcuna interpretazione positiva a riguardo.
Pare evidente il messaggio del Ministro: per trovare un lavoro servono conoscenze dirette, nate possibilmente al di fuori del rapporto di lavoro, anche grazie ad eventi casuali, come fare un pallonetto ad un imprenditore con addosso la maglia della sua squadra del cuore.
Per quanto si cerchi di giustificare o addolcire tale concetto, il suo gusto amaro non accenna minimamente a scomparire, facendosi addirittura più aspro per coloro che conoscenze dirette non ne hanno e non ne potrebbero avere, perché magari il lavoro a cui aspirano non consente un facile contatto diretto con il proprio potenziale datore di lavoro.
Perché a “calcetto”, parafrasando il Ministro, ci puoi giocare con l’imprenditore dell’azienda della tua città, ma se aspiri, anche poco, a lavorare presso una multinazionale, tale tecnica difficilmente la si potrà mettere in pratica. Certo, se sognate di lavorare in Google o Facebook, fate il borsone e volate in California, con la speranza di beccare in pantaloncini e calzettoni Larry Page o Mark Zuckerberg.
Ma un’ulteriore idea malsana del mercato del lavoro ricavabile da quell’affermazione porta ad una domanda: perché possono aspirare ad un posto di lavoro solo coloro che hanno un rapporto di fiducia (leggere conoscenza diretta) con un imprenditore? E un figlio di nessuno, privo di tale “fortuna” ma magari molto più competente? Destinato a rincorrere un palla di fieno, piuttosto che una palla da calcio.
Se dalle parole dell’ex Presidente di Legacoop si vuole trarre spunto per una riflessione lungimirante, allora forse dovremmo ragionare su come rendere i Curriculum Vitae davvero potenziali per la ricerca del lavoro. Un’idea potrebbe essere quella di far sparire dai CV tutti i dati “discriminanti” del candidato, lasciando solo quelle informazioni utili per capire se si è idonei o no per quel tipo di lavoro. Via dati anagrafici, solo informazioni circa la formazione e le esperienze lavorative precedenti e un contatto. Ricordandoci che l’uguaglianza sostanziale, presente nella nostra Costituzione, passa da un concetto semplice: sono le nostre scelte e le nostre esperienze che fanno di noi ciò che siamo, non un cognome pesante, l’età più o meno giovane, la provenienza geografica o il genere sessuale. O, addirittura, la nostra passione per il calcetto del venerdì.
Walter Tocci, senatore del Partito Democratico, ha annunciato le sue dimissioni da Palazzo Madama, subito dopo aver votato la fiducia al Governo, dando l’esempio sul rispetto delle decisioni del Partito, ma dando prova della sua pazienza e della sua dignità.
Ti prego, non lo fare. Ma sappi che ti capisco e che ti sono vicino, con grande dolore per questa tua scelta che ti chiedo di rivedere
Sei un barlume di speranza, un bagliore accecante di luce, nel buio pesto dell’attuale Parlamento. Non c’è stata una volta in cui abbia trovato un difetto in una singola parola dei tuoi tanti discorsi, dalla campagna congressuale fino ad oggi, per ultimo, quello tenuto in Senato, in occasione del dibattito sulla legge delega sul lavoro (vedi video).
Con grande stima ed emozione, ho scelto uno stralcio del suo discorso sul Jobs Act, tenuto martedì. Il resto lo trovate qui.
Si racconta ancora la bufala secondo cui nell’Italia di oggi un’impresa non può licenziare per motivi economici e disciplinari. Eppure, lo scorso anno ci sono stati circa 800 mila licenziamenti individuali, il 10% portati in tribunale e solo 0.3% annullati. Infatti,Il governo tecnico ha eliminato tutti i vincoli degli anni settanta, venendo incontro alle pressanti richieste degli imprenditori. Il reintegro è rimasto solo nel caso più estremo, quando cioè il magistrato constata la falsità della “giusta causa”. Se ora si cancella questa ultima garanzia un lavoratore potrà essere licenziato con l’accusa di aver rubato oppure con la giustificazione di una crisi aziendale, perfino se un processo dimostrasse che si tratta di falsità. In altre parole, per licenziare una persona diventa legittimo dichiarare il falso in tribunale. Non è flessibilità economica, ma barbarie giuridica che nega un principio generale del diritto: “Quod nullum est nullum effectum producit”. Una soglia mai varcata dal ministro Fornero – o forse dovrei dire dalla “compagna” Fornero, riconoscendo amaramente che il governo tecnico ha certo sbagliato sugli esodati ma ha difeso i diritti dei lavoratori meglio del governo a guida Pd.
In seguito alle nostre critiche è stato riproposto il reintegro nei casi disciplinari fasulli, ma non per le false cause economiche. Questo diventerà il canale privilegiato per ottenere i licenziamenti ingiustificati. D’altronde, per svuotare un secchio d’acqua basta un solo buco, non ne servono due.
In apparenza Renzi attacca la Camusso, ma nella realtà contesta la Fornero. Ed è curioso che l’ex-presidente del Consiglio, Mario Monti, presente in quest’aula come senatore a vita, non senta il bisogno di difendere la sua legge, che pure presentò in tutti i consessi internazionali come strumento per la crescita del Pil.
Solo in Italia può accadere che dopo due anni si scriva un’altra legge sul lavoro, senza neppure analizzare gli effetti della precedente. È un film già visto, da venti anni la legislazione è in continua mutazione senza risolvere alcun problema, aumentando solo la burocrazia. Si attacca la magistratura per la varietà di giudizi su casi similari, a volte davvero troppo ampia, dimenticando che proprio l’eccesso di legislazione ha impedito il consolidarsi della giurisdizione sui casi esemplari. Ciò che allontana davvero gli investitori stranieri è proprio il susseguirsi frenetico di nuove regole.
Se si riflette onestamente su questa anomalia italiana appare ridicola la retorica dei conservatori che hanno bloccato le riforme degli innovatori. È vero esattamente il contrario: sono state approvate troppe riforme, tutte purtroppo sbagliate. E questa proposta di legge persevera negli errori del passato:
– Si continua a far credere che abbassando l’asticella dei diritti riprenda la crescita. L’esperienza dovrebbe averci convinto che la svalutazione del lavoro ha contribuito pesantemente alla crisi della produttività totale dei fattori perché ha ridotto la capacità di innovazione.
– Si continua a contrapporre i garantiti e i non garantiti mentre è evidente che entrambi hanno perso diritti nel ventennio, come certifica ormai anche l’Ocse attribuendo all’Italia uno dei massimi indici di precarizzazione. La contrapposizione è ancora più falsa in questo disegno di legge poiché mantiene il reintegro per i lavoratori occupati e lo toglie ai giovani neoassunti.
– Si continua nella politica dei due tempi – “ora aumentiamo la precarizzazione, e poi verranno gli ammortizzatori sociali”. Fin dalle leggi Treu la promessa non è mai stata mantenuta e anche stavolta il passo indietro nei diritti è certo e immediato mentre il sussidio di disoccupazione è incerto e insufficiente.
– Si continua a denunciare il freno del sindacato, quando è evidente a tutti che non ha mai contato così poco nelle fabbriche. I politici, anche della vecchia guardia, hanno sempre polemizzato con i leader sindacali ma hanno sempre impedito l’approvazione di una legge di rappresentanza che desse voce ai lavoratori.
– Si continua nell’illusione che basti incentivare il tessuto produttivo attuale per creare lavoro. Ma la ripresa non avverrà facendo le stesse cose di prima. Non suscita alcuna riflessione il fallimento dei bonus fiscali per le assunzioni e della Garanzia giovani, né la scarsa risposta alle offerte dei prestiti della Bce. Che altro deve succedere per capire che ormai le norme e gli incentivi sono strumenti inutili se non si innova la struttura produttiva?
Dovevo postarlo. Non sono riuscito a resistere. L’intervento di D’Alema, sul Jobs Act, è stato un fiume in piena e, può piacere o no, uno dei migliori della Direzione di ieri.
Ha detto cose condivisibili, che non andrebbero scartate a priori solo perché a dirle è l’anti-Renzi per eccellenza, anzi, facciamone tesoro.
Ovviamente ne sceglierò altri, nel corso della giornata.
Io non so quanto possa essere giusto utilizzare queste etichette, ma di certo c’è un problema di fondo che va analizzato in ogni sua parte.
L’ISTAT ha pubblicato il dato sulla disoccupazione in Italia: 13,6% in tutto il Paese, per poi vedere che tra i giovani arriva al 46%, per non parlare del 61% di giovani meridionali che sono alla ricerca (o meno) di un lavoro.
Lo ripeto qui, ma su questo blog ne ho discusso parecchio: il problema va oltre un semplice ritratto sociologico dell’individuo, c’è un virus letale che circola nel nostro Paese da molto, moltissimo tempo. Questo virus è il lavoro nero che strappa chiunque da qualsiasi controllo dello Stato, nascondendo, dallo sguardo degli uffici di collocamento, dell’ispettorato del lavoro, persone costrette a vivere in situazioni quasi da schiavitù, con paghe infime, nessun diritto e l’umiliazione di non potersi costruire una vita.
Che ci siano ragazzi abbandonati a loro stessi e che abbiano gettato la spugna ancor prima di incominciare, è scontato, ma è quanto più urgente cambiare rotta e per farlo bisogna strappare tantissimi lavoratori dal mondo del nero, punire chi non regolarizza il lavoro, chi ne approfitta. Magari, non con una lotta armata (anche se lo Stato ha tutte le armi a disposizione per monitorare e sconfiggere il fenomeno, vedi Agenzia delle Entrate), ma con una serie di provvedimenti utili a suscitare nei datori di lavoro (e nei prestatori di lavoro) l’interesse verso la convenienza della regola.
Ma sarà questa la risposta giusta? O forse in questo Paese l’unica via possibile alla sopravvivenza è quella di abbassare la testa e accettare tutto ciò che ci troviamo davanti?
Se è così, bisogna correre, più veloci che mai, verso un nuovo sistema di sostegno alle imprese, lavorando con una filosofia ben precisa: se migliora la vita dei cittadini, lo Stato non può che trarne beneficio, anche nel grigiore dei conti economici. È così, dobbiamo capirlo. Punto e basta.
Sono tornato. Vi chiedo scusa per la mia assenza, ma questo è un periodo intenso, pieno di studio e impegno nelle attività che svolgo, la politica e la radio riempiono le mie giornate in una maniera spropositata e in questo c’è solo da compiacersi. Punti di vista, alla fine. Certo è che, se leggeste tutto ciò che ho scritto e commentaste sotto, per me può essere solo motivo di orgoglio verso il blog e verso voi.
Il Governo Renzi ha annunciato l’aumento di 80€ in busta paga per i lavoratori dipendenti, a partire dal 1° maggio.
C’è chi dice che questa è una manovra di sinistra e non c’è motivo per dire che non lo sia, ma il punto è un altro.
Durante la mia formazione politica, tutt’ora in fase di sviluppo, ho capito che nella propria azione bisogna darsi delle priorità e costruire tutto in base a queste.
Il Governo attuale, sorretto da una maggioranza politicamente eterogenea, ha una natura “emergenziale”, sulla falsa riga dello spirito che portò Monti a sedere a Palazzo Chigi e così via. Ennesimo governo delle larghe intese che ha degli obiettivi precisi: mettere mano al sistema istituzionale, economico e sociale, rivedere quanto non va e rimettere in carreggiata il Paese, con riforme di alto profilo e lungimiranti. Ecco, appunto.
Che gli italiani, lavoratori dipendenti, riceveranno 80€ in più e un fatto positivo, ma cosa può essere in confronto a quello che realmente vive il tessuto sociale italiano? Direte: “da niente a questo è comunque un risultatone”, proprio di ciò vorrei riflettere con voi di un aspetto, a mio avviso importante, che ho già accennato poc’anzi: la lungimiranza, il lungo termine.
Sono pochissimi ed è difficile trovarli, quei provvedimenti che avevano un fine lungimirante, con un obiettivo che andasse oltre il presente e si ponesse verso un graduale riassetto dell’economia, dei processi produttivi e tutto quello ad essi collegato.
Il Governo Renzi, questo, non credo lo abbia preso in considerazione, almeno finora, almeno fino ai provvedimenti presentati. Sottolineando, nuovamente, che su 80€ in più non si sputa, mi viene da pensare che questo non sarà d’aiuto all’economia, per ovvie e diverse ragioni.
Dal 1° marzo, è aumentata l’accise sulla benzina (+0,5 cent/litro) con relativi rincari nei costi di trasporto e, indirettamente, sul mercato dei beni di prima necessità, tutte cose, queste, che sappiamo e che non andremo a discutere.
80€ che vanno nelle tasche di chi un lavoro già ce l’ha, ma che, di fatto, non aiuta le imprese ad assumere e ad incrementare i posti di lavoro.
Sono dell’opinione che un governo di quella natura doveva incidere maggiormente su due aspetti fondamentali: Per prima cosa, un recupero dei fondi dalla spending review e da un riassetto delle spese con connessi investimenti, del ricavato, nella formazione e negli incentivi alle imprese per le nuove assunzioni, puntando ad un incremento delle offerte di lavoro, invertendo la rotta e cercando di diminuire la disoccupazione, soprattutto quella giovanile, ai massimi storici (42,4% secondo l’OCSE).
Secondo aspetto, non può non essere la lotta all’evasione fiscale, fatta con meno annunci e con più coerenza e concretezza. L’Agenzia delle Entrate è in possesso di un potentissimo sistema informatico, capace di processare 24.200 informazioni al secondo, un grande cervello che sa tutto di tutti, informazioni su tutti i contribuenti, anche sui furbi del fisco, quelli che per magia vivono, mangiano, hanno una casa ma dichiarano zero o poco più. Il suo nome è Serpico (Servizi per i Contribuenti), mal utilizzato, soprattutto perché c’è una politica fiscale da paesi incivili, senza un minimo coraggio di imporsi e scoperchiare la fossa in cui il grande sommerso si nasconde, dove 270 miliardi di € vengono sottratti al PIL italiano, più di 10 manovre e 300 preghiere. Ma il sistema politico è marcio, non per le persone, perché quelle cambiano (si spera) ma per il sistema, forse dovuto anche alla struttura costituzionale, a cui lì, sì, darei una rivisatina.
10 milioni sono le persone fisiche che evadono il fisco, 10 milioni di voti che solo Dio sa quanta bava fanno per i partiti (movimenti inclusi). 10 milioni di elettori che, storicamente, hanno rappresentato una fetta della popolazione intoccabile, vuoi per il gigantesco numero, vuoi per il settore che questi rappresentano. Lavoratori autonomi, liberi professionisti, commercianti, artigiani, del primo, secondo e soprattutto del terzo settore, tutti impegnati ad inventare sistemi per non pagare le tasse, molte altre volte senza impegno alcuno, visto che tanti sono stati i provvedimenti a favore di questi ladri. È offensivo dire ladri? È gente che lo fa per sopravvivere? Chi lo pensa è egli stesso un evasore o vorrebbe esserlo, ma non può (vedi i lavoratori dipendenti). Ricordate sempre una cosa: fino a quando ci saranno questi 10 milioni di italiani che non pagheranno un centesimo al fisco, la pressione fiscale su chi, invece, le tasse le paga sarà altissima, innescando, di fatto, un circolo vizioso di portata negativa, distruttiva, perché, diciamocelo chiaramente: lo Stato i soldi li deve prendere comunque, perciò lo fa da chi le tasse le paga.
Quello per cui Monti era stato chiamato, si è fatto poco o nulla, perché, come sempre, ci vanno di mezzo interessi elettorali, se non di chi in quel momento era al governo (o come doveva essere, visto che, alla fine, Monti si è candidato, contravvenendo ai patti con Napolitano), quanto meno della “maggioranza” che quei provvedimenti doveva votarli in Parlamento.
Dulcis in fundo, un decreto uscito mercoledì scorso dal Consiglio dei Ministri, leggermente corretto in seconda battuta, ma che ha una connotazione abbastanza deprecabile, soprattutto se coniugata con tutto il progetto disegnato dal famoso “Job Act”, o quanto meno da quello che Renzi va raccontando. Articolo 18? Ormai è un vecchio ricordo, questo decreto consentiva infinite deroghe ai contratti a tempo determinato, con la possibilità di trovarsi per strada da un giorno all’altro perché, paradossalmente, un contratto può durare anche un giorno oppure è facilmente non rinnovabile da parte del datore di lavoro. Immaginiamo una donna incinta che deve chiedere la maternità, potrà essere mandata a casa senza problemi, con un contratto non rinnovato, perché con scadenza a breve termine. Ora, in seconda battuta, quel decreto è stato un po’ modificato, arrivando al massimo di otto rinnovi nell’arco di tre anni, un contratto, in media, di quattro mesi e mezzo ciascuno. Un inno al precariato, insomma.
Un sistema ingarbugliato, che da quei 80€ mi porta a ragionare in tali termini, immaginando un sistema costituzionale diverso da quello che si va prospettando dalle tante riforme che girano nel Transatlantico. Serve una garanzia per chi va al governo o, quantomeno, per gli italiani onesti: un limite di mandato. La persona che ricopre l’incarico di Presidente del Consiglio, può svolgere il suo ruolo per un massimo di due mandati, consecutivi o meno, così da garantire alternanza, ricambio, ma soprattutto il distacco da interessi elettorali che portano l’azione di governo a ponderare le scelte così tanto, da arrivare ad un nulla di fatto o ad un banalissimo provvedimento che cambierebbe poco o nulla.
Ognuno ha le sue priorità, finora del Governo Renzi si è parlato per la legge elettorale, poco diversa dal tanto odiato Porcellum – che più che Italicum, andava chiamato Pastrocchium, come dice lo stesso Giovanni Sartori che, tempo addietro, diede il nome alla legge elettorale partorita da Calderoli – agli ultimi provvedimenti presentati nell’ultima conferenza stampa. Sul piano complessivo, è ancora presto per dare un giudizio sull’operato di Renzi e della sua squadra, ma se il buongiorno si vede dal mattino, mi auguro che non si sia svegliato ancora nessuno.
Siamo al record storico (scontato, a mio avviso): la disoccupazione giovanile ha raggiunto il 40,1%, il livello più alto dall’inizio sia delle serie mensili (2004) sia trimestrali (1977).
A dimostrarlo è l’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT) nelle tabelle della sua ultima ricerca, con base Agosto 2013, dove La disoccupazione ad agosto sale al 12,2%, in rialzo di 0,1 punti percentuali su luglio e di 1,5 punti su base annua.
Tra i 15 e i 24 anni le persone in cerca di lavoro, ovvero disoccupate, sono 667 mila, pari all’11,1% dei ragazzi nella stessa fascia d’età. E’ quanto emerge dai dati Istat per il mese di agosto (stime provvisorie e destagionalizzate).
Il numero di disoccupati ad agosto torna a crescere, dopo due mesi di stop, raggiungendo quota 3 milioni 127 mila, in aumento dell’1,4% rispetto al mese precedente (+42 mila) e del 14,5% su base annua (+395 mila).
Quasi un ragazzo su due non ha lavoro e questo è il risultato di una guerra che, ancora oggi, non ha deciso di cessare e che potrebbe regalare nuove e ulteriori vittime da aggiungere alla quota di cui sopra.
Mai, come ora, le istituzioni dovrebbero incentivare l’impresa giovanile e l’occupazione di ragazzi tra under25. Un segno di rafforzamento dello stato sociale della popolazione e soprattutto di scelte politiche decise a voltare pagina.
Sino a quando la disoccupazione aumenterà e dividerà le giovani generazioni a metà tra occupati e disoccupati – considerando, per altro, che gli indici statistici sono basati sugli elenchi di ragazzi under25 iscritti agli uffici di collocamento, quindi senza considerare tutti coloro che o stanno studiando, o non sono ancora iscritti agli uffici di collocamento – l’Italia non avrà mai una ripresa solida e la politica non potrà tirarsi fuori dalle sue responsabilità.
Le startup sono la nuova frontiera dell’occupazione e l’ingegno e l’impegno, di moltissimi giovani, sta dando la dimostrazione della possibilità di riscatto di una generazione che non ha prospettive certe per il futuro, come i loro genitori. Ma smettiamola di dire che le giovani generazioni non hanno una prospettiva, a prescindere. Credo che le giovani generazioni siano incaricate dalla Storia di rimettere in piedi (da zero) un “Sistema Paese” in frantumi, in cocci, e di sparigliare qualsiasi tipo agente patogeno che farebbe ricadere l’Italia in un vuoto politico-sociale.
In tutto questo, proprio oggi, come se non bastasse, è aumentata l’IVA e la benzina. Aumenta il costo della vita, diminuisce il valore della vita, che senza lavoro perde di dignità.
Pensavo tra me e me, analizzando quello che sta accadendo in Italia e soprattutto in Parlamento.
C’è la necessità di dare un governo al Paese, di dare delle risposte serie e concrete ai problemi che affliggono l’intera società.
Si è parlato di pagamento dei debiti della PA alle imprese – cosa sacrosanta – e di modalità della politica – la cui mancanza ha segnato lo sfacelo dell’antipolitica. Il lavoro: sul lavoro c’è da lavorare, scusate il giro di parole, ma una cosa è certa, l’urgenza è, soprattutto, per le giovani generazioni. 38,7% dei giovani sono senza lavoro, una situazione drammatica che se tradotta in un partito politico, vincerebbe le elezioni ad occhi chiusi. Bisogna fare presto! Le lagne sono a zero!