Questo teatrino del Datagate tra UE e USA mi fa sghignazzare. Come potevano le istituzioni europee a non sospettare che qualcosina qualcosina gli Stati Uniti stavano monitorando? E di quell’antenna installata in Europa? Ne vogliamo parlare?
Che ora Hollande e la Merkel si sentono indignati è cosa buona è giusta, ma che non si siano resi conto della tendenza degli USA di tenere tutto sotto controllo, mi lascia qualche dubbio sulla loro perspicacia. Eppure Kerry lo dice con tanta nonchalance.
La crisi dell’euro non deve farci dimenticare gli straordinari risultati ottenuti dall’Ue, come la pacificazione e lo sviluppo dell’Europa centro-orientale. Un esempio che dovrebbe ridarci fiducia nei cittadini e nella democrazia. Estratti.
L’estate scorsa abbiamo attraversato le regioni orientali dell’Ue, da Vilnius a Bialystok, per poi seguire la frontiera in direzione di Bielorussia e Ucraina, ammirando le splendide piazze delle piccole città della Slovacchia orientale, e dirigerci infine verso la Romania.
È stato meraviglioso. Avevo già visitato in passato molte di quelle città e di quelle regioni, ma l’avevo fatto subito dopo la caduta del comunismo, avvenuta quasi venti anni fa. Davanti ai miei occhi, invece, si è palesato un autentico miracolo sociale, economico e politico. I cambiamenti intercorsi sono equiparabili soltanto a quelli vissuti dall’Europa occidentale negli anni compresi tra il 1945 e il 1970. Ma se la ripresa nell’Europa dell’ovest dipese dagli Usa, quella dell’Europa dell’est si deve soltanto alle forze dell’Ue.
Mentre eravamo in viaggio continuavano ad arrivare notizie da Parigi, Bruxelles e Berlino di ulteriori meeting d’emergenza per salvare l’euro. Ma nelle calde serate trascorse nella piazza di Prešov, la crisi ci pareva lontana, parte di tutt’altro contesto. Per comprendere appieno quanto stava accadendo, avevo bisogno di spostarmi con la mente fino agli estremi confini geografici dell’Unione.
L’oscurità europea si è fatta paralizzante. Chi capisce più in che direzione si sta orientando la politica, o dove sta andando l’Ue? Tutte le decisioni politiche più importanti ormai si prendono a porte chiuse. La crisi dell’euro sta portando inevitabilmente alla questione dell’Europa e della democrazia.
C’è qualcuno che riesca ancora a non andare col pensiero al periodo antecedente allo scoppio della guerra del 1914? Nessuno capì il perché di una guerra, nessuno la volle, ma nessuno fece in modo da mettere in disparte il prestigio nazionale per scongiurarla.
Adesso pare che si stia ripetendo uno schema assai simile nella partita sull’euro. Tutte le volte che il Parlamento europeo e la Commissione europea propongono una politica improntata alla responsabilità comune – gli eurobond, tanto per fare un esempio – i capi di governo le bocciano. I paesi più fortunati come Germania, Finlandia e Svezia badano ai propri interessi con un atteggiamento di auto-illusione conservatrice. Così facendo, però, spingono il continente e loro stessi verso l’abisso.
Il nostro viaggio estivo si è trasformato in un pellegrinaggio europeo. Abbiamo visitato le zone periferiche delle grandi regioni che lo storico Timothy Snyder ha definito i “killing field” europei, il cuore geografico dei genocidi nazisti e comunisti dove tra il 1933 e il 1944 furono sterminati dodici milioni di esseri umani.
È stato un viaggio che ci è servito a ricordare che il progetto europeo non è nato da un ingenuo ottimismo, bensì dalla paura di quello che il continente era diventato. Osservando i turisti gremire le sinagoghe vuote di Praga, Cracovia e altre città, ci si rende conto che l’autoconsapevolezza europea – che ha le sue premesse nella drammaticità degli eventi storici – sta iniziando ad assumere una sua forma più definita. Visitando Auschwitz si diventa europei.
Per vent’anni l’Ue è stata tormentata da un’evidente crisi di legittimità. Da quando la Danimarca ha respinto il trattato di Maastricht nel 1992, la semplice idea di un cambiamento ha ispirato richieste di nuovi referendum. E il “non” e il “nee” dati rispettivamente da Francia e Paesi Bassi al referendum del 2005 sulla Costituzione europea sono stati quanto mai preoccupanti.
Le élite politiche hanno sempre considerato le richieste di referendum come una maledizione. Invece farebbero bene a vederli come svolte significative per il progetto europeo. In definitiva, la popolazione europea vuole poter dire la sua sulle questioni importanti che la riguardano. L’impegno profuso ha dimostrato che il dibattito politico in Europa è finalmente diventato europeo.
Perché mai sembra che i politici considerino i principi di base della democrazia scontati sul piano nazionale, ma pericolosi a livello europeo? La tesi che adducono più di frequente è che il popolo europeo – il cosiddetto demos – non si è ancora fatto vedere nella sfera politica e pubblica comune. E senza demos, la democrazia è solo una chimera.
L’estate scorsa il socialdemocratico svedese Carl Tham ha espresso in un articolo la sua tesi in questi termini: “Un’unione politica vitale e democratica potrà venirsi a creare soltanto nel caso in cui i popoli europei provino un forte senso di appartenenza e di solidarietà tra di loro, quando si riterranno parte di un unico popolo europeo e avranno fiducia nelle istituzioni politiche”.
Non sarà che questa conclusione si regge su un malinteso? È molto opinabile che quando all’inizio del XX secolo si operò la maggior parte delle svolte democratiche nei vari stati-nazione esistesse tale “senso di appartenenza e solidarietà”. Di sicuro, a quel tempo “la fiducia nelle istituzioni politiche” non esisteva, e non c’era neppure una sfera politica e pubblica così sviluppata.
Continuiamo a pedalare
Un anno fa è iniziato un dibattito sugli intellettuali: dov’erano quando il progetto europeo era sul punto di implodere? Molti contributi a questo dibattito sono stati pubblicati sull’influente sito Eurozine. Ma la mancanza di un dibattito aperto e di esplicite opinioni da parte dei politici europei in realtà è ancora più preoccupante.
È stato quindi rincuorante leggere la primavera scorsa un intervento di Gerhard Schröder sul New York Times. Uomo politico autorevole, che ha individuato un rapporto diretto tra la crisi dell’euro e la questione della democrazia, Schröder ha sintetizzato la propria opinione in tre punti: la Commissione europea deve evolversi in un governo eletto dal Parlamento europeo; il Consiglio europeo – formato dai capi di stato – deve cedere i propri poteri; successivamente esso deve essere trasformato in una camera alta, con un ruolo analogo a quello del Bundesrat tedesco.
Non è necessario essere d’accordo con tutte le proposte avanzate da Schröder, ma questa è la direzione da imboccare verso una possibile democrazia europea. Naturalmente, il suo intervento può essere criticato come un tentativo di imporre la democrazia “dall’alto”, ma potrebbe legittimamente essere considerato un prendere atto della sfida posta dai cittadini europei negli ultimi vent’anni.
La piazza di Cracovia è una delle più splendide del continente europeo. Sul campanile della cattedrale il passare del tempo è segnato da un uomo con la tromba. La storia getta ombre lunghe. Questo è un posto ideale per osservare l’Europa. Qui si può riflettere sul miracolo politico, il nuovo benessere e la democrazia civile.
Molti europei in occidente temevano il caos quando caddero le dittature dell’est. Ma si sbagliavano. La gente si dimostrò giudiziosa, e questo dovrebbe darci speranza e fiducia. Ma a soli 30 minuti di auto dalla piazza si arriva in quello che è il più terribile ricordo del terrore delle tenebre europee, quelle dalle quali nacque il progetto europeo: il campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau.
È indispensabile espandere la democrazia di continuo, perché non appena ci si rilassa essa si ritrae. Nell’autunno del 1940, quando la situazione in Europa raggiunse il punto più oscuro della propria storia, la femminista svedese Elin Wägner paragonò gli ideali ai fari di una bicicletta: se non si pedala e non si va avanti non fanno luce.
La missione socialdemocratica in Europa nell’autunno del 2012 può dunque essere sintetizzata dalla metafora della Wägner e da due sole parole: democratizzatevi e politicizzatevi.
Ieri, ad un’intervista al TG3 – Linea Notte, ho visto un Marchionne cambiato (d’aspetto). Forse con il 2012, gli anni si fanno sentire per tutti. Oppure è un operazione di marketing? O meglio ancora, un messaggio subliminale? Certo, barba incolta e voce rauca, quasi stanca, per molti potrebbe essere sinonimo di troppo lavoro. A quanto pare gli Stati Uniti stanno stressando l’Ad della Fiat-Chrysler (o della Chrysler, ormai è sempre lì). Oppure ad averlo ridotto così è stata la Camusso? I sindacati fanno rizzare i capelli all’ultra pagato manager dell’auto. Sarà, ma anche gli operai cominciano ad avere la barba, in attesa di risposte per il proprio posto di lavoro. Intanto lui si prepara alla buona uscita del 2015.
Avete ragione, non ho ancora espresso un mio parere in merito alla Guerra in Libia, cercherò di farlo adesso.
Penso che non sia il momento di fare i moralisti, prima di tutto, e credo che, mai come ora, la coesione nazionale sia più che necessaria. L’effetto boomerang sarà inevitabile, se non per ragioni di sicurezza territoriale, lo sarà per ragioni prettamente economiche.
A sfilarci i contratti stretti con la Libia, sarà la cara Carlà Brunì e consorte, il caro Sarkozy che pur di riconquistare i cuori della destra francese, in vista delle Presidenziali del 2012, ha premuto l’ONU affichè ci fosse un’azione di guerra per “tutelare i civili”, questa è la motivazione di tali bombardamenti. La cosa di cui dovremmo preoccuparci è essenzialmente una: siamo sicuri che stiamo facendo del bene al Popolo Libico? E se si, lo stiamo facendo “a pennello”? Se ci fa tanto scalpore una fan di Gheddafi che sputa sulla foto del Raìs, dopo il massacro a Misurata, poniamoci la domanda se qualche ribelle abbia sputato sulla bandiera francese, americana e inglese, dopo i diversi bombardamenti che hanno spazzato via, purtroppo, vite di persone “contro-Gheddafi”.
Ma la curiosità, mi porta a domandarmi chi prenderà il potere in Libia, nel post-Gheddafi. Saranno veramente i componenti del Governo di Bengasi a prendere il controllo politico ed economico o le truppe Total colonizzatrici della Francia pianteranno la propria bandierina sulle coste libiche? Questo è tutto da vedere: se da un lato la Coalizione Internazionale si sta facendo garante della libertà di un Popolo, ormai distrutto dal dittatore che dal 1969 controlla e governa il Paese, dall’altro vediamo un’insieme di Nazioni pronti ad accaparrarsi il bell’oro nero, pasto succulento di tutte le nazioni più sviluppate.
Eppure, io una delusione lo avuta: Obama ha avviato una nuova guerra durante il suo mandato, che strano caso è l’America? Forse è necessario avviare un conflitto internazionale, per essere considerati Presidenti degli Stati Uniti, ufficialmente? Credevo che il sogno di una ritirata delle truppe alleate dall’Iraq e dall’Afghanistan iniziasse ad essere realizzabile, ma dalle ultime vicende, traspare un semplice senso di sfruttamento e di potenziamento di interventi militari nella valle dell’Oro Nero.
Ma guardiamo la cosa da un semplice punto di vista: cosa è stato fatto in Iraq? in Afghanistan? In Iraq è stato rovesciato il regime di Saddam Hussein, benissimo, ma ora chi c’è? Ci sono i cittadini Iracheni alla guida di quel Paese? O ci sono gli Americani? Stessa cosa potrebbe succedere in Libia, bisogna fare molta attenzione. Ecco perchè è necessario che ci sia qualche Paese o qualcuno di molto rilevante, sul piano internazionale, che ricordasse al Presidente della Repubblica Francese le sue parole, durante i diversi comunicati ed interviste rilasciate minuti prima e dopo l’avvio dei rais.
Attendo con ansia l’esito della guerra, e soprattutto, vorrei tanto sapere quanto durerà questo intervento di “pace”. Obama dice poche settimane, la storia dice anni.
Da quanto tempo non sento parlare di giovani da parte dei politici, da parte del Governo, da parte delle classi dirigenti. I “cittadini del futuro” sono solo un pretesto, pretestoso, per cambiamenti repentini, volti alla trasformazione della società, ma tutto questo senza vedere e pensare agli interessi degli stessi. Uno spiraglio di luce arriva dagli Stati Uniti: Obama ha commentato con parole commosse e tristi i casi di suicidio di ragazzi omosessuali – vittime dei bulli, a causa della loro scelta sessuale. Il messaggio di Obama, a mio parere, indica due aspetti principali, 1 – guarda ai giovani con forte interesse e soprattutto con grande democrazia, 2 – non discrimina gli omosessuali, anzi li aiuta e li spinge a non aver paura. La lotta al diverso, in Italia, è oggetto di propaganda politica, basti vedere la Lega con le sue idee anti-islamiche e anti-meridionali. In Italia la situazione tra i giovani non è tanto distinguibile da quella citata prima: la discriminazione molte volte è motivo di superbia e di snobbaggine, particolarità delle nuove generazioni e soprattutto delle nuovissime. Considerando le vecchie tradizioni, Obama ha ormai infranto il tabù del potere, un potere che si era presentato distante dalle necessità dei cittadini, che non riusciva a captare i problemi della società, non solo dal punto di vista economico e sociale, ma anche dal punto di vista interpersonale che, senza ombra di dubbio, deve essere sempre al centro dell’attenzione della politica. Impariamo da questo grande uomo cosa sia, veramente, fare politica dal basso puntando in alto.