Perché Giurisprudenza? Ti facevo più da Scienze Politiche.
Questa è stata la domanda che, in 5 anni, mi ha inseguito.
La mia risposta, però, è sempre la stessa.
Perché amo il Diritto e tutto ciò che ne scaturisce. Pensare che proprio la Legge ci contraddistingue dagli altri animali è qualcosa di affascinante. Parlo del Diritto positivo, frutto di scelte e non di semplice riconoscimento di qualcosa che già esiste, come potrebbe essere il Diritto naturale.
E tra tutte le branche del Diritto, amo proprio quella da cui tutto nasce: il Diritto costituzionale. Perché la Costituzione è la chiave di volta che consente ad una società di stare in piedi.
La Costituzione protegge l’individuo dalle insidie dell’arbitrio, limitando questo con argini solidi, tra tutti, l’argine dei Diritti fondamentali. Ci pensi ad una vita vissuta senza una Costituzione che proteggesse la vita stessa e tutto ciò che porta con se? Come potremmo definire il nostro diritto alla libertà di parola, movimento e tutte le libertà positive che noi conosciamo, senza una Carta fondamentale che dica “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’Uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”?
Ed è affascinante vedere come gli uomini, consapevoli del valore della Costituzione, cerchino sempre di far combaciare la Costituzione formale (quella scritta e approvata con il legittimo procedimento) a quella sostanziale, quella cioè insita nel sottopelle della Comunità che protegge.
Il Diritto è l’argine alla barbarie e lo strumento più forte per proteggere i più deboli.
Che diventi un avvocato, un professore o un semplice giurista, sarà sempre questo a darmi la forza per andare avanti e dare sempre più.
Non veniteci a parlare del solito divario Nord-Sud e che tutto va male e che le classifiche ad orologeria de Il Sole 24 Ore sono Bibbia e che chi decide di rimanere nel Mezzogiorno a studiare è destinato ad occupare la serie B.
Una narrazione in controtendenza con la realtà che cozza con il merito che invece c’è e va valorizzato e sottolineato.
Oggi dobbiamo essere orgogliosi di quello che riusciamo a dimostrare in Italia e nel mondo. Oggi, quell’orgoglio è rappresentato dal Politecnico di Bari.
Continua la discussione scaturita dal complesso di inferiorità che ha colpito, tragicamente (aggiungiamo noi), Stefano Feltri – giornalista del Fatto Quotidiano – in merito alla scelta di studiare una materia umanistica anziché scientifica. Secondo il giornalista la laurea è un investimento economico. E basta. Perciò dovremmo scegliere il nostro percorso universitario, nello stesso modo con cui scegliamo una macchina o una casa.
Ho scritto questo articolo (qui riportato un piccolo estratto) su Post Meridiani. Dateci una lettura, se potete. Se volete.
[…] L’on. Marco Meloni, deputato del Partito Democratico – già responsabile Scuola e Università durante la segreteria di Pier Luigi Bersani – ha presentato un emendamento truffa al disegno di legge della riforma della Pubblica Amministrazione (DDL Madia), riguardante i criteri di valutazione del voto di laurea in relazione alla valutazione dell’ente di provenienza.
L’emendamento è un chiaro esempio di come la politica, oggi, abbia perso la bussola e il buon senso. Che tale proposta arrivi da un deputato sardo, poi, non ci stupisce più di tanto. Se la bussola manca, manca indipendentemente dalle proprie origini. […]
All’inaugurazione dell’Anno Accademico del Politecnico di Torino, il Presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica italiana, Matteo Renzi – segretario del Partito Democratico, il mio partito – mi ha definito, nei fatti, di “serie B”.
Non mi interessa quello che diranno i suoi difensori d’ufficio, tanto ormai è chiaro: quello che sbaglia sono sempre io.
Mi dispiace dover scrivere queste cose, soprattutto perché il soggetto che ha scatenato questa mia rabbia, mista a delusione, è il segretario del partito a cui dedico il mio impegno, per non dire la mia vita – visto che sono stato tacciato, molte volte, come un “ragazzo non normale”, perché preferivo partecipare ad una riunione di circolo, anziché andare in palestra o fare altro “da giovani”. Ora so che, oltre ad essere “non normale”, sono anche di “serie B”. E non esagero nel dirlo, perché io ho inteso proprio questo.
Che senso ha dire una cosa di questo genere? Come si può immaginare, anche solo per un istante, di gettare in un fosso intere generazioni? Caro Matteo, mi dispiace davvero, ma sono queste esternazioni che mi fanno pensare a quanta distanza ci sia tra me e il tuo modo di pensare. E bada bene, non si tratta di metterti i bastoni tra le ruote o di intendere il dibattito interno al partito, un muro contro muro. No. Non è il mio stile. Ma se mi è data voce, posso solo dire che, da questa concezione dell’università e del sistema di istruzione, c’è solo da prenderne le distanze.
Ogni giorno, da quando ho iniziato il mio percorso universitario, la mattina mi alzo di buonora, prendo il treno alle 06.40, per essere a lezione alle 08.30, torno a casa il pomeriggio e mi rimetto a studiare, per sostenere gli esami, per formarmi. Per costruirmi un futuro. Un futuro che, a quanto pare, è di serie B, perché ho deciso di rimanere nella mia terra. È da qualche giorno, quindi, che ci siamo svegliati marchiati con il fuoco, una bella B stampata in fronte, giusto per ricordarcelo tutte le mattine, davanti ad uno specchio.
Mi fa specie che Renzi abbia rilasciato questa dichiarazione in una università “di serie B” – volendo usare gli stessi termini – probabilmente non ne era a conoscenza o forse avrà una classifica tutta sua.
A dire ciò non sono io, ma Giuseppe De Nicolao, su Roars, il quale riporta i dati dell’ANVUR basati sul VQR 2004-2010 delle università.
Rinfrescare la mente non fa mai male. E se quell’articolo di De Nicolao può servire a tal proposito, aggiungo un altro piccolissimo particolare
Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato.
— Art.33 comma 3 della Costituzione Italiana
Voglio ricordarlo perché, se siamo qui a dirci di tutto, è giusto non negare che università private (una per tutte, la Bocconi) ricevano finanziamenti pubblici e che questa non sia una situazione di eguaglianza in partenza. È un aspetto di secondo piano? Non mi sembra. Da quando la Costituzione è stata declassata a consuetudine?
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
— Art.3 comma 2 della Costituzione Italiana
No, non è una lezione di Diritto Costituzionale, ma semplicemente non comprendo la concezione di eguaglianza che ha il Presidente del Consiglio. Mi spiego meglio: lui dice che l’eguaglianza va garantita solo in partenza, poi la legge della natura fa il suo corso e il vincitore è chi arriva più lontano (magari con qualche soldino pubblico di troppo). Un ragionamento che non fa una grinza, peccato che non parliamo di società per azioni, non parliamo di mercato di beni e servizi, non parliamo di produzione di massa, import ed export, ma di generazioni, della vita di centinaia di migliaia di giovani.
La classifica ANVUR, sancendo chi è nella serie A delle università, lancia un messaggio inequivocabile che, probabilmente, lo stesso Renzi ha voluto rilanciare: il Mezzogiorno è patria della serie B, un territorio che mai e poi mai potrà competere con il mondo. Per intenderci, l’università di serie A più a Sud è Roma Tor Vergata.
È tutta colpa del lupo cattivo? Certo che no. Anche le università del Sud hanno le loro colpe, moltissime, a cominciare dalla loro gestione, ma anziché andare nella direzione giusta – del controllo e del contrasto nei confronti di certi metodi – lasciamo che il bruco mangi tutta la mela, aspettando che marciscano gli avanzi. Se questo è un ragionamento che ha una sua teoria, probabilmente non è di sinistra.
Ma il male è sociale. Le università sono lo specchio del territorio che le circonda, a partire dal tessuto imprenditoriale presente, dalla dinamicità insita nel tessuto sociale. Non c’era bisogno di una cerimonia per ricordarcelo. Ma cosa vogliamo fare per risolvere questo terribile deficit? Mettere tutto il Mezzogiorno su una chiatta e spingerla al largo? O vogliamo cominciare con il rispettare la Costituzione e applicarla, prima di tutto?
Una cosa è certa, cari coetanei: armiamoci di valigie di cartone piene di speranze: direzione Nord. Sciocchi coloro che rimangono, destinati ad essere secondi.
Al di là delle differenze cromatiche, l’accostamento è chiaro e scontato (per certi versi): se nasci al Nord sei più fortunato, mentre se sei del Sud, oltre a dover fare i conti con l’organizzazione elefantiaca degli Atenei, devi anche beccarti uno stipendio “dimezzato” rispetto ai tuoi colleghi della Pianura padana.
Da quello che comprendo (non me ne vogliano i pasionari delle classifiche), si nota una tendenza al racconto. E basta.
Raccontare la situazione degli Atenei senza comprendere la loro storia, senza conoscere la vita che, di fatto, si sviluppa tra le mura delle aule dove diverse generazioni hanno gettato lacrime e sangue. Ma raccontarla non attraverso dei dati “su misura”, ma attraverso le grigie classifiche per punteggi (con criteri per niente chiari). E per “su misura”, intendo uno studio affrontato con gli strumenti idonei a collocare la realtà universitaria in uno spazio ben definito, al centro del territorio in cui essa svolge la propria funzione.
Mi sta terribilmente sugli zebedei (mi perdonerete la moderazione) il costante ritornello “le università del Nord sono più collegate con la realtà lavorativa del loro territorio”. A tale concetto, io rispondo con un’altra riflessione: sarebbe davvero triste non “sfruttare” le realtà aziendali che coprono il Nord Italia. Le università settentrionali hanno questa potenzialità perché c’è un tessuto aziendale di gran lunga più radicato e solido di quello del Mezzogiorno, dovuto ad una diversificazione dell’economia locale (differenza c’è anche tra Nord e Centro e Centro e Sud).
Lo ripeterò fino alla fine: possiamo parlare delle università in termini di ricchezza pro capite, possiamo classificarle con criteri che peccano di intelligenza, possiamo diffondere a mezzo stampa il concetto che “se sei del Sud e studi al Sud, ti aspetta una vita di serie B, con uno stipendio di serie C, in un territorio di serie D“, oppure possiamo cancellare questo razzismo 2.0 – basato sul niente e al soldo di chi da tali classifiche ne giova – e cominciare a sviluppare l’idea di un sistema scolastico e universitario capace di unire l’Italia, di unificare un popolo.
Voglio pensare ai miei studi come lo strumento che mi permetta di essere uguale a chi (in apparenza) è più fortunato di me, augurandomi che gli studenti settentrionali e del Centro Italia si sentano uguali a chi come loro ha studiato e percorso anni della sua vita a formarsi.
Uguaglianza, ecco cosa dovrebbero diffondere le università italiane.
Silenzio, è quello che dovrebbero fare le società di classificazione, alcune volte.
Ci lamentiamo, giustamente, della situazione incresciosa in cui si trovano gli scavi di Pompei, l’Ara Pacis di Roma e molti altri luoghi di grande valore culturale e artistico. Facciamo bene a lamentarci.
Aggiungo, però, anche le università: al Politecnico di Bari, due cedimenti di soffitto a distanza di qualche giorno, al Palazzo Del Prete di Giurisprudenza, un pezzo di cornicione viene giù. Tutto a seguito della pioggia che ha colpito nei giorni scorsi la Città.
Se questa è l’Italia che esce dalla crisi, stiamo proprio bene. Bisogna dirlo a Letta e ai suoi ministri.
Gli ultimi dati OCSE segnano l’Italia in una posizione sotto la media europea (ennesima), se non proprio ultima, per formazione professionale dei cittadini adulti che cercano lavoro o sono allocati nei diversi settori.
L’Italia è ultima per la capacità di comprensione dei testi e penultima (sotto c’è solo la Spagna) nelle competenze numeriche e nel rapporto con la matematica, in generale. Vediamo i grafici per avere un esempio visivo di quello che stiamo dicendo: il primo riguarda la percentuale di adulti, per livello di comprensione:
Se poi confrontiamo questa differenziazione con un riferimento alle fasce d’età, allora avremo un’enorme differenza tra generazioni, segno che la scolarizzazione ha fatto notevoli passi in avanti ma, purtroppo, ancora insufficiente, visto e considerato il fatto che ci ritroviamo, comunque nelle ultime posizioni.
Dopo aver snocciolato e sintetizzato al massimo quanto riportato dall’OCSE (i dati complessivi li trovate qui) è necessario fare un po’ un quadro generale rispetto alla situazione della formazione professionale in Italia, nelle sue sfaccettature, ma soprattutto, nelle sue differenze tra Nord e Sud.
Questa scarsa professionalità e preparazione della popolazione – basti pensare agli indici della padronanza della lingua inglese nel settore pubblico (28,7%) e in quello privato (28,6%) – è il risultato di una mancanza di prospettiva del sistema formativo italiano. Un sistema formativo proiettato verso la specializzazione della popolazione dovrebbe coniugare meglio il rapporto tra enti formativi (scuole e università) e le aziende, le attività produttive del territorio (di questo ne ho già parlato).
Da dove incominciare – Lo vediamo tutti i giorni, non c’è spazio alla menzogna: le nostre Università meritano spazio, perchè hanno studenti capaci e meritevoli. Chi “governa” le nostre Università deve necessariamente sforzarsi per tessere rapporti con soggetti terzi che possono garantire formazione su campo e una prospettiva sul futuro dei giovani laureati. L’impegno, tuttavia, non deve essere unilaterale: le aziende devono spingere verso questa frontiera della formazione, utile a loro e soprattutto agli studenti, senza dimenticare i diritti di chi affronta uno stage presso un privato o un pubblico (affrontare la questione retribuzione sarebbe una gran cosa).