Se il vostro desiderio è di leggere un saggio che vi spieghi e faccia luce sulle dinamiche statunitensi in modo freddo, distante (direi da osservatore di terza fila), quasi asettico, beh…lasciate perdere “Questa è l’America“. In questo libro, Francesco Costa, giornalista e vice direttore de Il Post, fa molto altro: vi porta nell’America più profonda, lontana dai mass media e dai racconti che spesso vediamo rimbalzare sui social. E lo fa egregiamente.
Seguo Francesco da molto tempo e ho anche avuto l’onore di intervistarlo (insieme al mio socio William, al secolo Gugliemo Currao) nel mio programma radiofonico, il “Dave & William Show” su Radio Kaos Italy, qualche giorno dopo l’Election Day delle Elezioni americane. La sensazione che ho avuto, nel leggere il suo libro, è stata un po’ la stessa che ho provato (e provo tutt’ora) quando leggo la sua newsletter o ascolto il suo podcast “Da Costa a Costa“: è come essere seduto ad un tavolino di un bar, con una persona interessante che ti dona una conoscenza che va ben oltre il mainstream. E così, come succede dopo aver letto o ascoltato i suoi ultimi aggiornamenti sugli Stati Uniti nell’era (ormai quasi terminata, grazie al cielo!) di Trump, allo stesso modo, dopo aver divorato “Questa è l’America” mi sono sentito più ricco. E, personalmente, non è una cosa scontata, soprattutto in fatto di libri.
La sensazione di trovarsi davanti ad un narratore diverso dal solito emerge sin dalla prima pagina. Quanti avranno cominciato a leggerlo pensando di vedere, tra le prime righe, il nome di Trump, di Biden, o forse di Obama o di qualche altro politico o personaggio blasonato? Invece parte da una ferita enorme, nascosta agli occhi di noi, donne e uomini distanti da quel mondo così complesso quale sono gli Stati Uniti d’America: la dipendenza da oppiacei e il terribile impatto sociale che l’abuso di antidolorifici ha sulla popolazione americana.
Un anno e mezzo prima di morire nel bagno di un aeroporto, la ventiduenne Saige Earley era andata dal dentista per un’incombenza tanto banale quanto fastidiosa: l’estrazione dei denti del giudizio.
Inizia così l’avvenutura nell’America raccontata da Francesco Costa e il seguito è caratterizzato da un climax ascendente che tocca le corde dei lettori più sensibili. Un’America piegata in due dalla frenesia capitalista e dalle sempre più ampie divergenze sociali, ampie quasi quanto le strade che dividono i quartieri periferici da quelli del centro, le classi più agiate da quelle meno abbienti. È un’America diversa da quella che siamo abituati a vedere nei film di Hollywood. Ad esempio, sapevate che il paradigma periferie-centro è diverso da quello che siamo abituati a vivere nelle nostre città? Nelle città statunitensi, chi vive in centro, generalmente, non se la passa tanto bene quanto coloro che vivono nelle periferie, magari in villette a schiera (come quelle di Edward mani di forbice, di Ritorno al Futuro 2 o di Mamma ho perso l’aereo, per intenderci. Eh sì, lo so che vi ho citato dei film, ma esempi migliori non c’erano).
Francesco Costa il suo viaggio lo porta anche tra i meandri del fanatismo religioso americano: la storia della setta dei “davidiani” di Waco (Texas) e del suo leader David Koresh. Esperienza finita con quello che fu un vero e proprio massacro, con 76 morti, durante l’assedio dell’FBI, durato 50 giorni.
Ma la Storia degli USA e le sue radici nella guerra civile non restano fuori dal quadro realizzato dall’autore. Il discorso di Gettysburg di Abraham Lyncoln – 16° presidente degli Stati Uniti e personaggio ormai asceso nella mitologia americana – portano il lettore ad analizzare l’altro tema così profondo e complesso dell’America moderna: il razzismo e lo scontro sociale, ancora forte, tra i vari gruppi sociali che compongono la popolazione statunitense. I bianchi sono destinati a diventare una fetta minoritaria dei cittadini americani, mentre gli afro-americani, gli ispanico-americani e gli altri gruppi comporranno la maggioranza di un Paese tanto grande quanto sottopopolato. Eppure gli squilibri sono ancora forti e i bianchi (quelli razzisti, non tutti eh!) reagiscono come possono. Anche eleggendo un presidente fortemente divisivo e che non lesina uscite offensive nei confronti di diversi gruppi di cittadini statunitensi.
Insomma, il libro di Francesco Costa va letto se volete viaggiare, comodamente seduti sul vostro divano, negli Stati Uniti del XXI Secolo. Perché è davvero un viaggio: l’autore ha raccontato ciò che ha visto con i propri occhi e ascoltato con le proprie orecchie. E l’invito è di leggerlo con la stessa calma e chiarezza con cui lo stesso Francesco racconta l’America nel suo “Da Costa a Costa”.
Una volta terminato, il background acquisito vi porterà a porvi qualche domanda in più, davanti ad una notizia proveniente dall’America che da Obama è passata a Trump ed ora a Biden.
Malloch potrebbe diventare il nuovo ambasciatore USAper l’Unione europea, a Bruxelles.
Uno dei più grandi sostenitori del declino dell’Unione, assieme al Presidente Trump, tanto da applaudire il Regno Unito per la sua scelta di uscirne.
L’UE non ci sta e intende bloccare la nomina dell’ambasciatore: il procedimento prevede la notifica della nomina dall’Ambasciata USA a Bruxelles all’Alto rappresentante dell’UE (Federica Mogherini), la quale a sua volta la notificherà al Presidente del Consiglio europeo (Donald Tusk), concludendo la procedura con il silenzio assenso, dopo 30 giorni della notifica del Consiglio europeo ai 28 governi degli Stati membri dell’Unione. Il processo potrebbe ingripparsi in uno di questi passaggi. Basterebbe anche un solo Stato contrario e la nomina verrebbe bloccata.
Attendiamo fiduciosi uno scatto d’orgoglio dell’UE nei confronti degli Stati Uniti, in completo declino morale e politico, dal 20 gennaio a questa parte.
Qualcuno dice che l’Italia abbia anticipato di 23 anni gli USA, riguardo Trump. Alludendo a Berlusconi.
Io, invece, credo che l’Italia abbia sì anticipato gli Stati Uniti, ma di ben 95 anni. Fatevi due conti e capirete di cosa puzza il 45° Presidente degli Stati Uniti d’America.
“All can be swept away by a government which does not heed the demands of its people, and I mean all of its people. Therefore, the essential humanity of men can be protected and preserved only where government must answer — not just to the wealthy, not just to those of a particular religion, or a particular race, but to all its people.”
Donald Trump è il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America. Cosa ormai nota a tutti e, grazie a Facebook, ho potuto leggere le più disparate analisi sulle elezioni americane. Proviamo a fare un po’ di ordine e a spazzare via un po’ di tutto.
Il dato sulla vittoria di The Donald è cristallino: i democratici hanno perso. Ma davvero? Servivo io per dirvelo? No. Infatti dipende da come intendiamo leggere i dati.
Il sistema di elezione del Presidente degli Stati Uniti avviene per il tramite di grandi elettori (electors per l’esattezza), assegnati ad ognuno dei 50 stati federati (più il Distretto di Columbia), in proporzione alla popolazione di ciascuno di essi.
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Come potete vedere dalla mappa, la California (con 37 253 956 abitanti, cens. 2012) è lo Stato più popoloso ed esprime ben 55 grandi elettori, a differenza del Wyoming (con 584 153 abitanti, cens.2012) che è lo Stato meno popoloso degli USA.
Il totale dei grandi elettori che hanno il compito di eleggere il Presidente e il Vice Presidente è di 538, nei quali sono compresi i 3 electors del Distretto di Columbia, che non è uno Stato federato ma un distretto federale, tuttavia rappresentato da 3 grandi elettori, come stabilito dal XXIII emendamento, il qualeprevede che il numero di electors sia uguale a quello che spetterebbe se fosse uno Stato, ma comunque non superiore a quello degli elettori designati dallo Stato meno popoloso.
La particolarità del sistema elettorale statunitense è che i candidati presidente devono vincere stato per stato e non in termini di voti assoluti nell’intera Federazione.
Il sistema del winner takes all consiste nell’attribuzione di tutti i grandi elettori di uno Stato a quel candidato che, anche per un semplice voto in più, risulta essere maggioritario nello stesso. In un sistema proporzionale (esistente soltanto in Nebraska e nel Maine) qualora i candidati arrivassero quasi al pareggio, avremmo una divisione spacchettata a metà dei delegati, mentre con il sistema del winner takes all, il candidato che ottiene il 50%+1 dei voti prende il 100% dei delegati.
Cosa comporta questo sistema? Innanzitutto è la manifestazione concreta del concetto di federazione presente negli USA: gli Stati non sono considerati come delle pseudo-autonomie, ma come Stati veri e propri, trasformando il risultato delle Presidenziali come una vera e propria battaglia elettorale su dimensione nazionale di ogni singolo stato federato.
Come secondo effetto, c’è la distorsione del voto popolare in numeri assoluti. Anche qui, è opportuno fare un dettagliato esempio: Al Gore contro George W. Bush nel 2000. Il candidato democratico ottenne più voti di quello repubblicano, ma prese meno grandi elettori del suo avversario, perdendo le elezioni.
Lo stesso caso si è verificato ora, tra Clinton e Trump. Infatti, Hillary Clinton ha preso ben 59.938.290 voti, contro i 59.704.886 di Trump. La candidata democratica ha preso oltre 200.000 voti in più rispetto al Tycon che, tuttavia, ha ottenuto 306 grandi elettori, contro i 232 dei democratici. Nessun complotto, ma “effetti collaterali” di un sistema elettorale che, comunque, rispetta la forma federale della Repubblica. Vi basta vedere la mappa con gli stati blu e rossi, per capire che anche se ha preso più voti, la Clinton rimane comunque meno votata nei singoli stati, soprattutto in quelli con più grandi elettori.
(*) Grandi elettori (Quarantotto Stati hanno il sistema “winner-takes-all”: tutti i voti elettorali vanno alla lista che ottiene il maggior numero di preferenze. Il Maine e il Nebraska attribuiscono 2 voti elettorali al vincitore dello Stato e il resto in base ai distretti del Congresso).(**) Il distretto federale di Washington (District of Columbia) esprime 3 voti nel collegio dei Grandi elettori del Presidente, nel conteggio complessivo è perciò equiparato ad uno Stato.
Interessante è il voto dei giovani che è, in modo schiacciante, maggiormente democratico. Ecco cosa sarebbe successo se gli unici a votare fossero state le giovani generazioni.
Premetto che, come dice Francesco Costa, sulla sua newsletter che ha accompagnato tutti gli appassionati durante tutta la campagna elettorale delle Elezioni presidenziali, “immagino a questo punto che molti di voi cerchino delle risposte, delle spiegazioni, a un simile capovolgimento: non tanto e non solo dei sondaggi ma delle regole più basilari della politica, del semplice buon senso. Io quelle spiegazioni per il momento non credo di averle“. Bene, quelle spiegazioni non sono facilmente individuabili. La complessità è tante e ognuno potrebbe buttarla su un tema ben preciso per darsi una spiegazione: economia, armi, politica estera, simpatia, basta con le solite 2 famiglie che si alternano alla Casa Bianca, ecc.
Non volendo affiancarmi agli esperti citati nel primo paragrafo, mi limiterò a sfatare qualche chiacchiericcio delle ultime ore, con delle mie supposizioni/analisi.
» Il voto a Trump è un voto di protesta, contro la finanza, i poteri forti, i banchieri e i puffi.
Falso! È davvero difficile credere che un miliardario possa essere contro la finanza, i poteri forti e i banchieri.
Il voto a Trump è un voto molto più complesso da spiegare, che fa rima con la paura; il disagio sociale presente in molte parti degli Stati Uniti; un problema occupazionale che in alcuni Stati è molto presente – se pur Obama ha attuato politiche virtuose che hanno ridotto il tasso di disoccupazione al di sotto del 5%.
Ma Trump è anche quello della vendita senza freni delle armi – durante la campagna elettorale, a seguito di attentati ad opera di squilibrati (americani doc), difese la loro vendita, scagliandosi contro Obama che voleva una legislazione più dura e pressante sul settore – e dell’opposizione ad una sanità aperta a tutti, pronto allo smantellamento dell’ObamaCare – ricordiamoci che prima della riforma voluta da Obama, per poter essere curato negli ospedali bisognava essere in possesso di un’assicurazione sanitaria e di una carta di credito, indipendentemente dal tuo reddito e dalla tua situazione occupazionale.
Non pensiate non ci sia gente che vota anche e soltanto per questo. Leggete qui ed anche e soprattutto qui, per capirci di più. E se volete approfondire ulteriormente, anche qui.
Altro elemento molto importante per leggere il voto degli statunitensi è il “prima pensiamo a casa nostra” lanciato da Trump, circa la politica estera – vedere la promessa di un sempre minore impegno degli USA sulla NATO, gli interventi da “poliziotto” sulle Nazioni con disordini interni e anche gravi (vedi la Turchia), oppure il non facile rapporto con la Russia, accentuato dalla proposta della Clinton di attivare una no fly zone sulla Siria, in disaccordo con il candidato repubblicano. Leggete qui, per approfondire.
E se proprio non ne siete convinti, guardate un po’ chi c’è tra i possibili ministri. Goldman Sachs e JP Morgan vi dicono qualcosa? Potrebbe esprimere il prossimo Ministro del Tesoro e non solo.
» La vittoria di Trump è sinonimo di come la politica abbia perso il contatto con la gente.
Falso! Trump ha vinto perché è stato più bravo della Clinton ad essere in contatto con le esigenze dei cittadini americani. Il Tycon è riuscito ad intercettare la rabbia e la paura di moltissimi cittadini in difficoltà, parlando alla pancia della gente e dimostrando, da bravo comunicatore, di saper dire ciò che i cittadini volevano sentire da un candidato alla Casa Bianca. Gaffes a parte, sia chiaro, anche se più che affossarlo lo hanno agevolato moltissimo, facendolo rimbalzare su tutti i network senza spendere un centesimo in messaggi elettorali a pagamento, a differenza della sua competitor. “I’m Hillary Clinton and I approved this message” costa milioni.
Rimanendo nel campo comunicativo, la campagna aggressiva e quasi terrorizzante di Trump, nei confronti della Clinton, ha destato non pochi timori nell’elettorato nei confronti della candidata dem. Giusto per darvi qualche esempio:
Hillary Clinton is under FBI investigation AGAIN. She exposed America’s most sensitive secrets, putting our national security at risk. Crooked is UNFIT to serve as our president. When I’m elected, I will PROTECT our people and our country! #AmericaFirst
» Con Trump presidente, per l’Europa saranno tempi difficili.
Tutt’altro! Se Trump allenta la presa degli USA sul resto del mondo, con meno influenza sulle scelte di politica estera e di difesa, per l’Europa si apre una grande opportunità di crescita e di maturazione politica. Serve, però, maggior coesione e una chiara intenzione, da parte degli Stati membri, di andare oltre le posizioni dei singoli, realizzando la tanto importante politica estera comune, influenzando maggiormente nei processi geopolitici del Pianeta. Facendo attenzione alla Russia e alla Cina. Tornate a questo articolo, per approfondire.
» Hillary Clinton poteva diventare la prima donna alla Casa Bianca.
E quindi? Immagino che questa sia la riflessione più impopolare tra quelle da me riportate qui ma, signori miei (cit.), la politica si fa con le idee, non con il proprio genere sessuale. La vera rivoluzione non sta nel fare scelte sulle persone in base al loro essere donne o uomini, ma a ciò che essi sono come persone, in base alle loro idee, alle loro capacità. Oggi la vera rivoluzione sarebbe quella di abbattere il criterio del sesso dalla considerazione che noi abbiamo di una persona.
Hillary Clinton è una donna? Mi pare chiaro. Si è persa un’occasione storica? Certo che no. Nel Partito Democratico statunitense ci sono migliaia di donne in gamba, con tutte le carte in regola per poter aspirare alla Casa Bianca. Una tra tutte: la Senatrice Elizabeth Warren. Una forza della natura, non perché donna, ma per la tenacia, la passione e la credibilità che spende ogni giorno per molte battaglie importanti (e di sinistra) al Congresso e con l’Amministrazione Obama.
Tra le tante cose dette dalla Clinton durante il suo discorso di sconfitta, c’era l’esortazione alle ragazze americane di non perdersi d’animo e di essere convinte, sempre di più, che per loro non ci saranno ostacoli nel raggiungere i propri sogni. Ecco, io non ne ho dubbi e il fatto che il candidato (questa volta donna) democratico alla Casa Bianca sia stato sconfitto non significa nulla.
Piuttosto c’è la questione degli stipendi differenti a parità di mansione, tra uomo e donna. Quello è un tema su cui fare battaglie serrate. E non serve un presidente donna per risolverlo, ma un presidente capace. Che sia uomo o donna poco importa.
» I Simpson sono stati profetici: nel 2000 avevano predetto Trump presidente.
Una delle più grandi boiate che io abbia mai letto sulle Elezioni americane. E si è scritto di tutto sul tema.
Quel famoso episodio che nelle ultime ore viene definito profetico, in realtà, è del 2015. La campagna elettorale per la presidenza era iniziata da un pezzo. Ma vi pare possibile che ci azzecchino la scena delle scale mobili, oppure la stessa grafica della campagna elettorale di The Donald? Dai!
Oltretutto, se sostenete tale tesi, probabilmente non avete mai visto i Simpson: nel 2000 avevano una fisionomia molto meno definita dell’attuale. Perciò è una bufala bella e buona.
» La mia personalissima opinione sulla vittoria di Trump.
C’era d’aspettarselo. Lo dico senza fare la parte del saputello o di quello che aveva la previsione in tasca. Non vi nascondo che questa tornata elettorale delle Presidenziali non mi abbia entusiasmato per niente.
Tornando alla previsione di queste elezioni, un dato secondo me viene sottovalutato da tutti coloro che, stupiti, provano a dare una spiegazione alla elezione di Trump: dalla parte dei Repubblicani arriva Trump – islamofobo, misogino, razzista – e dall’altra, nei Democratici, un candidato che parlava in un linguaggio di speranza, contro Wall Street e la grande finanza, contro la disuguaglianza sociale – il Senatore del Vermont, Bernie Sanders – cominciava a fare paura ad Hillary Clinton, raggiungendo percentuali altissime, toccando il 40% dei consensi tra gli elettori Dem.
Due mondi diversi, quello di Trump e di Sanders, ma entrambi avevano, in campagna elettorale, un linguaggio che raccontava lo stesso romanzo, con personaggi diversi e con storie diverse, certo, ma pur sempre un romanzo che raccontava il riscatto di chi oggi è in difficoltà. I Dem non hanno compreso questo e si sono lanciati nella corsa alla Casa Bianca con un candidato storicamente presente nel panorama politico statunitense. Una figura sinonimo di stabilità, quando ormai di stabile non c’era più nulla. Eppure la Clinton avrebbe dovuto comprendere di non essere il massimo come candidato, perché avrebbe potuto vincere la sfida già 8 anni fa, alle primarie contro Obama, ma i Dem, all’epoca, preferirono l’attuale Presidente. Si può dire che la sua vittoria alle primarie sia stata un po’ costruita a tavolino dallo stesso partito, tavolino che Sanders stava per rovesciare ma, purtroppo, fermato ad un passo dal riuscirci.
Ma ora? Ora stiamo a vedere. Aggiungere altro non ha, per il momento, senso. Se sarà necessario scriverò un altro post.
Ora è il momento di attendere i primi passi di The Donald e scoprire come sarà nelle vesti di presidente.
Per i Democrats è giunto il momento di una riflessione sulle scelte intraprese in questa campagna elettorale, sul poco coraggio travestito da “history made”.
Si pensa già alle prossime elezioni? Sì ed è giunto il momento di più coraggio. Warren, dove sei?
La Gran Bretagna costruirà un muro alto 4 metri e lungo più di 1km, nei pressi di Calais, vicino al “The Jungle”, il campo profughi a nord della Francia. Non so come abbia potuto, il Governo francese, permettere la sua costruzione.
Donald Trump, dall’altra parte dell’Atlantico, vuole costruire un muro tra Stati Uniti e Messico.
Al Brennero l’Austria schiera più di 2000 soldati al confine e sospende la disponibilità per l’accoglienza dei profughi.
La mia generazione sta ricevendo esempi disgustosi da quella precedente, quella dei nostri genitori. Esempi di intolleranza, di populismo forsennato, di ignoranza e piccolezza umana che assocerei, con molta facilità, ai periodi più bui della nostra Storia.
Salviamoci! Salviamoci da tutto questo! Guardiamoci allo specchio, piuttosto. Ma non guardiamo coloro che oggi governano con tanto odio e tanta paura del prossimo.
Qualche minuto fa, da Washington D.C., è arrivata la notizia ufficiale della decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti che ha reso il matrimonio gay un diritto.
Nei sistemi di Common Law, una sola sentenza può cambiare l’assetto dei diritti in modo considerevole, se poi ad emanare quella sentenza è la più importante autorità del Potere Giudiziario del Paese, è chiaro che riconoscere la storicità di tale decisione è a dir poco scontata.
Le sentenze della Corte Suprema – in quanto autorità al vertice del terzo potere – hanno effetto in tutti i 50 Stati e la sentenza sui matrimoni omosessuali ha abbattuto gli ultimi ostacoli al riconoscimento di tali unioni nei 13 Stati che ancora si opponevano a tale passo.
Grazie, sempre, ad un’altra sentenza – del giugno 2013 – i matrimoni contratti all’estero potevano essere riconosciuti in tutto il territorio degli Stati Uniti, ma fino ad oggi, gli Stati federati potevano rifiutare di celebrare matrimoni tra omosessuali o di, addirittura, riconoscere quelli celebrati al di fuori del territorio nazionale.
Tornando alla sentenza in questione, ad essere contro sono stati i 4 membri conservatori, tra cui l’attuale Presidente della Corte Suprema, il Chief JusticeJohn G. Roberts Jr. il quale, assieme agli altri 3 oppositori (i Giudici Antonin Scalia, Clarence Thomas and Samuel A. Alito Jr., ha redatto la dissenting opinion – l’opinione di minoranza che, a favore del dibattito giurisprudenziale, mette in risalto la posizione di ogni singolo giudice, venendo meno al principio di collegialità delle deliberazioni (per intenderci, una sola decisione a nome di tutta la Corte).
Nel suo dissent, Roberts ha affermato
Questa è una corte, non un parlamento
Sottolineando come una decisione di tale portata dovesse essere di competenza del Congresso e non della Corte Suprema.
Ma al dissent si oppone l’opinione di maggioranza, come trascritto dal Giudice Anthony Kennedy:
La Corte ritiene, ora, che le coppie dello stesso sesso possano esercitare il loro diritto al matrimonio. Non è pensabile che, ancora, possa essere negato loro tale diritto.
Anthony Kennedy è affiancato, in tale decisione, da Ruth Bader Ginsburg, Stephen G. Breyer, Sonia Sotomayor e Elena Kagan. Tutti componenti liberal della Corte Suprema.
La Corte, per elaborare la sua decisione, ha preso in considerazione casi di restrizione provenienti dal Michigan, Ohio, Kentucky e Tennessee, individuando le ragioni per cui la Costituzione degli Stati Uniti non può avvallare tale proibizione.
Tale sentenza ha, nelle contrapposizioni, spaccato in due la Corte, ma la decisione è andata incontro, secondo molti, alla volontà della maggioranza degli americani (il 61% della popolazione è a favore dei matrimoni gay e la percentuale di gradimento tra i più giovani sale vertiginosamente).
La Corte Suprema, ancora una volta, si è dimostrata essere motore trainante per l’avanzata dei diritti negli Stati Uniti, sorpassando il Congresso su un ruolo fondamentale che la politica non riesce sempre a ricoprire. Perciò, checché ne dica il Presidente Roberts e il dissent, i diritti non possono essere alla mercé di una politica arretrata.
God bless the Supreme Court.
Obama interviene in merito alla sentenza sul matrimonio gay della Corte Suprema