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  • Tutto come previsto. O quasi. Analisi delle Politiche 2018

    Tutto come previsto. O quasi. Analisi delle Politiche 2018

    Le Elezioni Politiche 2018 sono arrivate al capolinea e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Si sprecano, come sempre e in ogni dove, commenti e anatemi su chiunque respiri e abbia toccato, anche e solo con il proprio dito, la politica. Credo, tuttavia, che sia il caso di fare un po’ di ordine e mente locale su quelle che sono le ragioni del panorama politico attuale e su cosa dovremmo aspettarci da qui ai prossimi giorni, settimane e mesi.

    Il Movimento 5 Stelle avrà il compito di reggere sulle proprie spalle la XVIII Legislatura (indipendentemente da quello che pensa il centrodestra), con la consapevolezza che governare il Paese sia un tantino diverso dallo sbraitare in Piazza Monte Citorio o dallo scagliare i soliti anatemi in televisione o sul web. Ma c’è un dato che rilevo: il Movimento si è istituzionalizzato. Una struttura diversa da quella primordiale, con Di Maio capace di aggregare trasversalmente il consenso, assieme ad una strategia comunicativa senza precedenti: il Movimento ha retto la propria campagna elettorale non su un solo leader (come si può dire tutti gli altri partiti) ma su quattro colonne: Luigi Di Maio, Alessandro Di Battista, Beppe Grillo e l’idea primordiale del Movimento.

    Luigi Di Maio ha sfoderato l’asso nella manica, a qualche giorno dal voto, con il Governo “ombra”. Una scelta che con la Costituzione non ha nulla a che spartire e di certo non aveva e, a maggior ragione oggi, non ha la possibilità di concretizzarsi. A causa di un complotto pluto-giudaico-massonico? No. Semplicemente perché il risultato elettorale non consegna la maggioranza parlamentare a nessuna forza politica e, soprattutto, per salire a Palazzo Chigi Di Maio dovrà sperare in un governo di minoranza (alla Rajoy, in Spagna, per intenderci) – e solo lì potrebbe confermare i “suoi” ministri – oppure chiedere il supporto ad altre forze politiche (di certo non “aggratis”).

    Alessandro Di Battista, con la scelta di non ricandidarsi, ha acceso gli animi dei “sensibili alle poltrone”, potendo fare campagna da “uomo libero”, esempio vivente di “colui che non è attaccato ad uno scranno” che fa politica “per semplice servizio”, simbolo della lotta ai sempiterni politici lì da decenni (Berlusconi e D’Alema in primis) o a chi aveva promesso di andar via ma lì c’è restato (parlo di Renzi e del Referendum, ovviamente).

    Beppe Grillo ha giocato d’astuzia, facendosi da parte quando necessario, con qualche sporadica apparizione ma senza la pesante presenza come quella di 5 anni fa, facendo allontanare l’idea che un comico potesse guidare una forza politica di governo.

    Dulcis in fundo, l’idea primordiale del Movimento – o noi o loro – aleggiava costantemente in ogni angolo della campagna elettorale: la linea di demarcazione tra i 5 Stelle e tutto il resto dell’agglomerato politico in antitesi ha massimizzato la spinta dei cittadini verso qualcosa di “nuovo” e di “diverso” rispetto a quello che fino ad ora c’era stato.

    Insomma, una mossa su diversi piani, un attacco da ogni angolo del campo di battaglia che ha portato al risultato oggi sotto gli occhi di tutti.
    Il Movimento, tuttavia, dovrà scontrarsi con la realtà dei fatti e le posizioni estremizzate contro il sistema e contro una certa idea di società dovranno lasciare il passo alla responsabilità. Di Maio ha già rimangiato tutte le posizioni “oscure” del Movimento, come quella sui vaccini e sull’Europa e l’Euro. Questo potrà fare del bene ai 5 Stelle come del male, perché l’elettorato, si è detto già prima, è fluido e estremamente dinamico ma, soprattutto, senza più pazienza, la stessa che ha fatto sì che al Sud il M5S vincesse a mani basse.

    Sul perché il M5S abbia stravinto al Sud, ritengo necessaria una nota di chiarezza: nel Mezzogiorno non ha vinto la voglia di assistenzialismo (come ho sentito dire da certi scienziati della politica) ma la stanchezza. La stanchezza di sentirsi sempre tirati in ballo, senza una comprovata ragione.

    “Dobbiamo pensare ai ragazzi del Sud” dicono. E i ragazzi del Sud hanno pensato da loro e hanno scelto chi non si è macchiato di queste divisioni.
    “Dobbiamo ripartire dal Mezzogiorno” è la frase onnipresente dai tempi di Giolitti, diventata come lo zucchero in una torta: scontata.
    È la stereotipizzazione del Mezzogiorno che ha portato questo a ribellarsi, a non riuscire più a credere a forze politiche diverse dal Movimento 5 Stelle. Mettiamocelo bene in testa.

    Il centrodestra resta, tuttavia, la prima forza politica del Paese, in modo aggregato, con la Lega che diventa prima forza di area, relegando Silvio Berlusconi e sua gamba e non più testa, come ai tempi di Bossi.
    Matteo Salvini è riuscito a distruggere la memoria storica della Lega Nord, eliminando ogni riferimento separatista (simbolica è l’eliminazione di “Nord” dal simbolo) e mettendo radici in ogni parte del Paese, trasformandosi in un vero partito di destra, una sorta di nuova Alleanza Nazionale. Altroché Fratelli d’Italia.
    In poche parole, Salvini si è ritrovato tra le mani, tempo fa, un partito fortemente relegato territorialmente ma con forti radici nella cultura e nei sentimenti di quel territorio stesso a tal punto da innaffiarlo, come un albero da forti radici, cercando di farlo crescere in lungo e in largo, con i le radici ben piantate oltre il Po. Ed è quello che ha fatto e il risultato ne è la prova: la Lega supera Forza Italia perché è cresciuta al Nord ed ha sbranato l’elettorato berlusconiano del Sud (quello che non si è lasciato ammaliare dal Movimento 5 Stelle), togliendone una grande fetta.
    Insomma, il leader leghista è destinato ad essere il vero erede di Berlusconi, checché ne dica Tajani o i fantasmi di Fini e Alfano dei tempi che furono, e di certo non dovrà dire grazie al Caimano, ma all’anagrafe (Berlusconi ha 81 anni) e alla memoria breve degli italiani, soprattutto del Mezzogiorno (ancora si odono i cori razzisti verso i napoletani).

    Liberi e Uguali ha colto nel segno e, infatti, è sparito dalla scena politica italiana con buona pace dei pronostici e di chi ci ha creduto. E se la speranza va verso una lezione che si spera essere stata imparata dai Dirigenti (con la D maiuscola, secondo alcuni), dall’altra l’ortodossa sensazione di essere gli unici detentori del mantra della sinistra continua a infestare le menti degli già scissionisti seriali. Quale futuro per i Grasso, Boldrini, Bersani, D’Alema, Speranza, Civati e Fratoianni? Probabilmente quella più scontata: la trasformazione da Liberi e UgualiLiberi Tutti e chi si è visto si è visto.

    +Europa ha fatto una buona campagna elettorale ed ha avuto il coraggio di proporre scelte politiche ben lontane dal sentimento comune degli italiani, soprattutto in merito all’immigrazione, all’antiproibizionismo e all’integrazione europea. Eppure molti stigmatizzano la Bonino come l’eterna sopravvalutata. Provateci voi a fare una campagna elettorale con un programma così “diverso” da quello degli altri partiti. Il risultato di questa lista è ben più che un semplice “risultato di rappresentanza”. È sì, questo, un punto di partenza.

    Ma ora veniamo al nodo cruciale: il Partito Democratico.
    Il PD è il vero sconfitto di queste elezioni. Bisogna dirselo senza rifugiarsi in formule estemporanee e fuori da ogni logica.
    Matteo Renzi ha portato il PD al massimo storico (le famose Europee) e al minimo storico (queste Elezioni). Una meteora politica che dovrebbe far riflettere tutti, non solo i suoi più stretti collaboratori. La velocità con la quale si sale e si scende, nella politica italiana, è risultata essere disarmante, aldilà di ogni aspettativa, visti i precedenti storici.
    Una campagna elettorale, quella dei Dem, sulla difensiva, senza il coraggio di alzare la testa e di prendersi degli schiaffoni se necessario.
    La prima campagna elettorale nella quale il suo leader riusciva a riscuotere maggior consenso se rimaneva nell’ombra.
    Candidati catapultati in ogni parte, senza ragione alcuna se non quella di assicurare ai soliti una poltrona (emblematico è il caso del romano Roberto Giachetti a Sesto Fiorentino, considerato sicuro, eppure uscito dalle elezioni come ultimo del collegio, con un 4% o poco più).

    Renzi ha sbriciolato un tesoro inestimabile, una leadership politica che molti avrebbero barattato con la propria anima. Eppure, eccoci qua e vedere un non ancora 45enne essere considerato un “ex” fa accapponare la pelle (soprattutto rispetto ai già citati precedenti storici). Ma ora?
    Ed ora le risposte non possono essere scontate: ricostruire, ripartire, prendere coscienza. Sono concetti bistrattati e mai realizzati. Bisogna, però, serenamente prendere atto del fallimento e riconsiderare le proprie posizioni, lasciando che la Comunità del Partito Democratico possa ritrovarsi da sola, con gli anticorpi che ha e, magari, riscoprendosi nei valori e nell’impegno che l’ha sempre contraddistinto.

    Il PD è un partito in deficit di militanti. Ogni anno diminuiscono tesserati e la stessa detenzione della tessera si deprezza, riducendosi al valore simile a quello del marco tedesco dopo la II Guerra Mondiale.
    Credo che l’intero gruppo dirigente che con Renzi ha guidato il partito, fino ad oggi, debba farsi da parte e, magari, cercare di comprendere gli errori fatti e, possibilmente, ridistribuirsi secondo una nuova coscienza singola e collettiva, sempre all’interno del Partito Democratico, senza paventare la creazione di partiti personali o mono-area (il famosissimo partito renziano post-PD, per intenderci) e senza lanciarsi nel calderone del “in tutta Europa la sinistra sta vivendo un momento complicato”, anche perché già durante le Europee la sinistra europea era in uno stato pietoso, eppure il PD lì riuscì a raggiungere il suo massimo storico.

    Bisogna ripartire. Già, la uso anche io questa formula. Ma è così. E se fino a ieri è stata una filastrocca per addolcire i momenti amari, oggi è la condizione imprescindibile per sorreggere e tenere in vita il Partito. Da zero. È da lì che è necessario riscoprirsi. La nostra base apprezzerà e anche gli elettori che ci hanno abbandonato potrebbero ripensarci e tornare lì dove sono sempre stati e lì dove si sono sempre riconosciuto a pieno.
    Bisogna rivoltare il partito come un calzino. Lo dico in primis a me stesso, che ne sono parte. E bisogna farlo in ogni dove, dal locale al nazionale, dalla sua organizzazione giovanile fino alle cariche monocratiche del Partito. In alternativa il baratro e la scomparsa definitiva del centrosinistra e dei Democratici.

    *Aggiornamento delle 18.42: Renzi ha deciso di dimettersi nel momento della formazione del nuovo governo e chiede le primarie (cosa, a mio avviso, necessaria più che scontata) perché “il segretario non lo decide un caminetto”.

    Insomma, a parte tutto questo, è opportuno attendere. Il Parlamento si insedierà a breve e il Presidente della Repubblica comincerà l’iter che porterà il futuro Presidente incaricato a setacciare una maggioranza nelle Camere per dare un governo al Paese.
    Nel frattempo, Paolo Gentiloni, forte del boom nel suo collegio, resta a guardare dalla finestra di Palazzo Chigi, pronto a consegnare il campanello al suo successore o, semplicemente, continuare a custodirlo, mentre l’Italia continua ad evolversi.

    A nuovi sviluppi. Grazie.


  • Dopo le toghe rosse, ora è il turno delle fake news?

    Ne parlavo già qui, in questo articolo di qualche giorno fa.

    Oggi, su Il Foglio, è apparso questo articolo che vi segnalo che descrive, partendo da un’infarinatura storica, quale sia il problema a cui andiamo incontro, con la guerra alle fake news.

    Buona lettura e fatemi sapere che ne pensate. Commentate qui sotto.

     


  • Smithers sguinzaglia Brunetta!

    Smithers sguinzaglia Brunetta!

    Certe volte bisogna proprio dirlo: è più facile comprendere cose più complesse che questa, ma probabilmente molti non si sforzano neanche.

    Che Berlusconi sia stato assolto nel processo Ruby, non deve smuoverci sul piano politico. Può anche non essere reato aver fatto sesso con la nipote di Mubarak (minorenne a sua insaputa), ma un Presidente del Consiglio, per di più in carica, non può, non deve partecipare a bordelli, pagare le olgettine, chiamare la polizia di Milano, realizzare un abuso d’ufficio a 360°, e così via.

    Massimo Gramellini, che più di me sa raccontare e spiegare le cose, ne parla nel suo Buongiorno di oggi, su La Stampa. Vi consiglio di leggerlo.

    Per il resto, prepariamoci a sonore bastonate nei marroni, per almeno una settimana e forse più. Brunetta si sta già impegnando: chiede la grazia del Presidente della Repubblica – su un caso completamente differente rispetto a quello del Ruby-Gate, infatti Berlusconi è stato condannato in via definitiva per frode fiscale (gradirei spiegazioni in merito al nesso logico di tale richiesta) – e una commissione d’inchiesta sul “colpo di stato del 2011”.

    Camomilla in endovena e avanti per la nostra strada.

    Ps. leggete questa chicca, proveniente dallo Statuto del PCI. Erano altri tempi.

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  • Italicum: contro la diarrea partitica

    Italicum: contro la diarrea partitica

    Da un po’ di giorni, si discute della nuova legge elettorale. Mi chiedo se si stia raggiungendo un bipartitismo o un minestronismo. Me lo chiedo da un po’ di tempo.

    Ottenere, dal nuovo disegno di legge elettorale, presentato dal tandem PD-FI, un sistema di sbarramento che distrugge completamente la rappresentanza dei piccoli partiti, scongiurando, di fatto,la frammentazione del Parlamento in tanti piccoli spicchi difficili d’assemblare, se non per interessi personali dei loro leader, puzza un poco.

    C’è chi crede che i partiti di Alfano, Salvini, Meloni, Storace e compagnia bella, rimarranno quelli di oggi e, forti del loro carattere, si scaglieranno contro un muro in pieno giorno. No, non credo sarà così, credo che il disegno costruito sulla legge elettorale e la mancanza delle preferenze, sia opera di Berlusconi e del suo rilancio politico, presentando, a mio avviso, due scenari possibili, alle prossime elezioni.

    Scenario 1 – I piccoli partiti del centrodestra si riuniscono con Forza Italia, promettendo percentuali di rappresentanza in Parlamento ai gruppi minoritari, tutti sotto l’ala protettrice di Berlusconi, il quale un po’ di la, un po’ di qua, potrebbe dare filo da torcere al PD di Renzi, in termini percentuali.

    Scenario 2 – I partiti più piccoli, coerentemente con i loro valori, si coalizzano e formano una grande federazione, con simbolo unico, che racchiude FdI, Lega, NCD. Mi chiedo, però, come possano convivere Lega e NCD insieme, perciò ritengo questo scenario improbabile al 99,5%.

    Tutto questo, sia chiaro, sulla base di una legge elettorale che delle preferenze non fa la sua battaglia. Qualche giorno fa, mi sono espresso negativamente nei confronti di queste, ritenendo ridicoli gli annunci, da parte di una fetta della classe politica, a mo di slogan per farsi belli e carini. Ritenengo, la libertà di scrivere il nome del candidato, un segnale politico forte, di controllo maggiore da parte del territorio, di un peso triplicato del singolo voto, ma che potrebbe essere facilmente controllato da logiche a noi non sconosciute e che, chi ha avuto almeno un’esperienza di campagna elettorale, sa della grande presenza in molte parti d’Italia, soprattutto al Sud.

    Ritengo fondamentale il ritorno ad un sistema elettorale capace di rendere il parlamentare al servizio del territorio e non delle segreterie. Ritengo fondamentale slegare i deputati e senatori dalle logiche del voto di gruppo, basato sulla volontà del leader di turno o per non scontentare qualcuno. Bisogna porre fine a questo orribile teatrino.

    La soluzione migliore credo sia quella dei collegi uninominali, in cui ci sono determinati nomi e i cittadini possono scegliere, liberamente, se votare un candidato, anziché un altro.
    Sarebbe un sacrilegio? Certo che no! Voglio vedere se un collegio si ritrovi un Minzolini, un Capezzone, un Fioroni o un chi so io! Verrebbero presi a pesci in faccia!

    [GARD]

  • #OccupyCongress

    #OccupyCongress

    Arriverò in ritardo, nel commentare quanto sta accadendo al nostro Paese, durante le votazioni del Presidente della Repubblica, fatto sta che ho il voltastomaco e, candidato o no del Pd, non sono uno che riesce a tenersi le cose dentro.

    Partiamo per ordine. Il Partito Democratico durante la campagna elettorale ha sempre e dico sempre cercato di dare di sè un’immagine di forza rinnovatrice, riformista e devo dire che c’era anche riuscita, nella concretezza, non solo con le primarie per i parlamentari – dove sono stato eletti molti giovani, tra cui molte donne – ma soprattutto con la presentazione di due persone autorevoli e molto rispettate, alla presidenza di Camera e Senato, rispettivamente Laura Boldrini e Pietro Grasso.

    Oggi tutto questo è andato in fumo, forse per qualche chiappa venduta al nemico e magari per la disperata ricerca di una maggioranza che potesse dar vita ad un governo, un governo che, personalmente, potrebbe benissimo non esserci, se questo comportasse l’ammucchiata geneticamente modificata di PD e PDL, consegnando a Grillo, indebitamente, il 50% del consenso alle prossime elezioni, con Berlusconi secondo partito e noi relegati a fare il “nuovo terzo polo”. Tutto questo perchè il nome di Franco Marini è il risultato di una imposizione e non di quel sentito bisogno di cambiamento (ne parlo qui).

    Durante la mia piccolissima esperienza in politica, ho cercato di conoscere da vicino le realtà che circondavano e animavano il PD, trovando interessante la fronda renziana, per me caduta in basso, ultimamente, a causa dei recenti comportamenti assunti dal Sindaco di Firenze, comportamenti che si potevano assolutamente evitare, considerato il fatto che, a ragion veduta, il soggetto citato sarà, senza pronostici da fantapolitica, il prossimo candidato del centrosinistra alle prossime Politiche, salvo cambiamenti e tattiche “boldrini-grasso” dall’altra parte della barricata. Il fronte bersaniano, per intenderci.

    Il PD guarda al suo futuro. Ce lo dicono tutti: giornali, portali d’informazione, personaggi di spicco della scena politica italiana, protagonisti del centrosinistra. Tutto vero, nessun dubbio. Proprio perchè veritiera questa tendenza, oggi esprimo il mio dissenso per ciò che è stato il PD, ciò che non è stato il PD e auspico un futuro migliore per quello che, oggi, risulta essere il primo vero progetto di partito 2.0, casa dei riformisti e aperto, democratico. Peccato che in queste ore abbia avuto mancanza di promiscuità tra decisioni politiche e popolari, quello che, in fin dei conti, è la vera forza del Partito Democratico. Le primarie ne sono un esempio.

    Si parla di futuro, abbiamo detto, e quindi si parla di congresso. Non so chi rappresenterà il fronte ora targato “Bersani”, non sappiamo se ci sarà ancora, fatto sta che i nomi che ora circolano in rete e per i corridoi di partito vanno distinti e vanno comprese le loro ragioni e soprattutto il loro peso conquistato all’interno del partito.

    Fabrizio Barca ha un passato di tutto rispetto, ma il prossimo segretario del PD non può essere uno che ha deciso di aderirvi l’11 aprile 2013. Per l’appunto.

    Gianni Pittella, certo, uomo di partito, vice-Presidente vicario del Parlamento Europeo, d’accordo, aspetto di avere più informazioni in merito alle intenzioni di Pittella, ma non è il soggetto che il PD cerca, non perchè non sia una brava persona, ma perchè c’è bisogno di teorizzare nuovamente il concetto di partito e le modalità di partecipazione. Detto questo io ho fatto la mia scelta e fino a quando non mi caschi il cielo in testa, io ho il mio candidato ideale: Pippo Civati (che di nome fa Giuseppe e non Filippo!).

    Civati è sempre stato uno che, dal canto suo, ha sempre detto la propria e di teorie su come investire le forze del più grande partito italiano ne ha sfornate parecchie e non sono, di certo, da buttare nel cestino. Civati non va raccontato, va letto, vanno ascoltati i suoi discorsi (qui il suo blog) e la cose che più mi coinvolge è che dire di essere dalla sua parte non significa essere “civatiano” ma essere un democratico che vuole cambiare le cose e io sono un democratico che non vuole starsene all’angolo ad osservare. Mi sono iscritto al PD non con l’intenzione di fare carriera al suo interno, ma di lavorare per il bene del territorio, della provincia, della regione, del Paese, ma ancora di più della gente che ci circonda. Ciò che ci accadra di qui a pochi secondi non possiamo saperlo, ne per le nostre singole vite, ne per il nostro essere comunità.

    Civati è candidato al prossimo congresso e può essere certo di una cosa: io ci sono. Mi sono stancato delle linee forti e soprattutto della “macro-candidatura” certa della vittoria. Basta! Il partito è di tutti. Il partito non è di proprietà intellettuale di nessuno, ma di tutti. Si cambia al congresso e il PD se vuole sopravvivere dovrà fare un passo da gigante, altrimenti sprofonderà nella frammentazione e quel passo richiede rinunce, rinunce che non possono essere lasciate alla strumentalizzazione di qualcuno, ma che devono risultare non come mezzo di propaganda, ma di rinvigorimento.

    Ps: voglio esprimere il mio orgoglio e la mia soddisfazione nel vedere le sedi del PD occupate in tutta Italia. #OccupyPD ora è sostenuto dai Giovani Democratici. Ne vedremo delle belle nelle prossime ore. Io la lancio qui, una bella idea per il prossimo congresso: #OccupyCongress. Per il resto, stay tuned!


  • Per il PD è l’ora dell’irresponsabilità

    left_wing“La serietà al governo”. Così era scritto nel 2006 sui manifesti della campagna di Romano Prodi, capo di una coalizione che peraltro di serio aveva ben poco da offrire, composta com’era da una miscela che comprendeva i più vieti demagoghi (Antonio Di Pietro, i Verdi di Pecoraro Scanio) e i più spregiudicati trasformisti (Clemente Mastella, Lamberto Dini, eccetera) […]