Ho usato parole molto dure contro i FutureDem, contro la loro organizzazione, e quello che pensavo, continuo a farlo – perché credo che di giovanile ce ne sia solo una e che questa abbia tutti gli strumenti per incrementare la partecipazione e il coinvolgimento di nuovi ragazzi – ma una cosa è certa: mi sarei fatto in quattro per dare loro la possibilità di discutere, di fare proposte, di organizzare la scuola che in queste ore si sta tenendo a Canosa.
Questa è la mia cultura politica. Rispetto, pluralità, comunità.
Mi auguro solo una cosa: che non si arrivi ad una contrapposizione “noi/loro”. Il PD è bello perché è plurale, ma arrivare ad osannare le iniziative di una corrente, considerando le altre solo come polemiche e ridicole, è davvero orripilante. Questo partito sta perdendo il lume della ragione, ormai non c’è più la cultura politica di una volta.
Nel ribadire la mia ferma convinzione che problemi di questo generenon possono essere oggetto di tweet ma di serie discussioni attorno ad un tavolo, io credo che bisognerà evitare di mettere in soffitta questo caso, ne ora ne mai, e la voce unica del PD (quello vero) deve invocare le dimissioni di chi è stato il responsabile politico dello scempio accaduto a Taranto, in occasione dell’elezione del nuovo Consiglio provinciale, secondo il disegno di Delrio.
Dovevo postarlo. Non sono riuscito a resistere. L’intervento di D’Alema, sul Jobs Act, è stato un fiume in piena e, può piacere o no, uno dei migliori della Direzione di ieri.
Ha detto cose condivisibili, che non andrebbero scartate a priori solo perché a dirle è l’anti-Renzi per eccellenza, anzi, facciamone tesoro.
Ovviamente ne sceglierò altri, nel corso della giornata.
Nella Regione simbolo della Resistenza, della presenza storica della sinistra nel nostro Paese, lì dove nacque l’Università più antica d’Europa, laboratorio della cultura europea, lì dove il Partito Democratico ha voluto organizzare la Festa nazionale dell’Unità, lì, in Emilia-Romagna, dove gli iscritti al PD sono più di 70.000, le Primarie – aperte a tutti, iscritti e non iscritti – hanno registrato la partecipazione di 58.119 votanti, a fronte dei 155.000 delle parlamentarie del dicembre 2012 o dei 350.000 delle primarie tra Bersani e Renzi (sempre 2012) e quelle dell’8 dicembre scorso.
Dovendo leggere i dati, a caldo direi che o c’è stata un’epidemia di virus intestinale, oppure i cittadini dell’Emilia-Romagna hanno pensato a quattro ipotetiche motivazioni per non andare a votare:
1) Scontato vinca Bonaccini: non ha senso andare a votare e “pagare” per un risultato già scritto in partenza, contro l’ex-sindaco di Forlì, Roberto Balzani;
2) Bonaccini prima era con Bersani e adesso sta con Renzi: può aver giocato il fattore “credibilità politica” del Segretario regionale, dopo il balzo da Piacenza a Firenze;
3) O Richetti o morte: il ritiro della candidatura di Matteo Richetti – giustificata dalla presenza di indagini sulla sua persona, quando in realtà alcune sue dichiarazioni avevano lasciato trapelare forti pressioni da Roma – possono aver disperso l’attenzione sulla competizione, facendo sedere comodamente sul divano gli emiliani e i romagnoli per tutta la giornata di ieri.
4) Il PD non mi stuzzica: tutto questo trambusto sull’art.18, tutti i complimenti di Brunetta e Berlusconi sull’operato del Governo (soprattutto nell’ultimo periodo) possono aver spostato l’immagine (e l’asse) del PD più a destra, allontanandosi dai sentimenti del “popolo delle primarie”, scoraggiandolo ad andare a votare, o incattivendolo, costringendolo a non votare pur di dare un segnale forte al partito.
Quattro ipotesi a cui se ne aggiungeranno altre e probabilmente sarà così e nessuna di queste è quella giusta, fatto sta che da quel dato dobbiamo ripartire, comprendere cosa abbia potuto portare a questo flop e risolverlo, prima che sia troppo tardi.
Negli ultimi due mesi, mi sono affezionato ad una serie tv americana, ormai non più in produzione. Parlo di “The West Wing“.
Nella sesta stagione, va in scena la campagna elettorale per le primarie per i candidati alla presidenza, sia per i repubblicani, che per i democratici. Vi starete chiedendo cosa ci sia di così tanto clamoroso in tutto questo. Bene, niente. Proprio niente, perché negli Stati Uniti le primarie sono un passaggio fondamentale per i partiti, perché sono lo strumento principale per misurarsi e confrontarsi con la propria base. Un dono immenso.
Ieri, Matteo Richettiha annunciato la sua candidatura a Presidente dell’Emilia-Romagna, sbaragliando ogni possibile accordo che avrebbe avuto come risultato una possibile candidatura unica. Richetti dice una cosa sacrosanta: i candidati li scelgono i cittadini e non le segreterie di partito (per inciso, la stessa logica varrebbe per i parlamentari).
Da non-renziano, io sono completamente d’accordo con lui. Sono a favore di primarie sempre e comunque, dove i candidati si possano fronteggiare a viso aperto, senza l’ombra dei burattinai romani, senza doppi giochi, senza nessun tipo di pressione e nessun braccio sulla spalla di qualcuno.
Non ho mai sopportato l’idea di veder catalogate le persone come “renziani”, “dalemiani”, “bersaniani”, “civatiani”, ecc., ma la cosa mi fa imbestialire quando a farne le spese è il dibattito interno, quando non c’è un briciolo di spessore politico nell’idea che abbiamo del Partito Democratico e del Paese.
Basta pressioni dall’alto, i leader nazionali di ogni corrente, a partire da Matteo Renzi, lascino che le primarie siano uno scontro alla pari tra tutti i candidati, senza apporre il marchio di quella o questa corrente. Facile vincere se si è sul carro del più forte, magari quando non hai le capacità personali per potertela giocare fino in fondo, costruendo una campagna elettorale basata sui contenuti, su un’idea di governo del territorio.
Ma diciamocela tutta: il carro cammina e presto comincerà a fermarsi, per presentare il candidato “spumeggiante” a questo o quel ruolo, facendo cadere la maschera dell’ipocrisia che ci ha accompagnato per molto tempo, permettendoci di vedere quello che ha combinato la guerra di posizionamento all’interno del PD, dalle ultime primarie fino ad oggi.
Ma in tutto questo, un episodio di The West Wing mi ha fatto riflettere: l’importanza del non inquinare il voto, l’importanza dell’imparzialità del Presidente degli Stati Uniti (capo del Partito Democratico americano) dinanzi alla competizione elettorale. Un’imparzialità morbosa, a volte, ma importante, per il bene della democrazia, per il bene del nostro partito e per il bene dei territori che vogliamo, dobbiamo governare.
Viva le Primarie!
Ps. sulle primarie pugliesi tornerò a parlarne su questo blog, a breve.
19 agosto 1954, muore Alcide De Gasperi. 21 agosto 1964, muore Palmiro Togliatti. Due grandi personaggi della storia politica del nostro Paese. Nella ricorrenza del 60° anniversario dalla morte dell’uno, e del 50° dell’altro, si scatena un dibattito pietoso, scatenato dalle dichiarazioni dell’amiconeGiuseppe Fioroni, il quale, in barba ad ogni tipo di rispetto nei confronti della cultura politica della sinistra italiana, del Partito Democratico e del nostro Paese, ha proposto di dedicare la Festa dell’Unità nazionale proprio ad Alcide De Gasperi. Poiché è palese a tutti la simpatia che provo nei confronti di Fioroni, evito di mandarlo a quel paese, per l’ennesima volta, da questo blog.
Tuttavia, proprio per lo spirito nuovo che deve coinvolgere la politica italiana, e il Partito Democratico soprattutto, ho scelto questa lettera di Togliatti, indirizzata proprio a De Gasperi, sulla “nobiltà della politica”. Ho inserito un piccolo cappello introduttivo, per localizzare temporalmente la lettera, nel suo contesto storico di riferimento.
Durante la campagna elettorale per le amministrative del 7 aprile 1946, Togliatti, prendendo spunto da un discorso di De Gasperi, negava che esistesse un «problema religioso» nei rapporti fra i partiti di massa e nella società italiana, appellandosi a un’adeguata considerazione delle posizioni ufficiali del Pci, ribadite di recente nel suo V Congresso. Chiedeva quindi a De Gasperi il mantenimento di un reciproco rapporto di rispetto, che facesse da argine allo scatenamento delle passioni elettorali. De Gasperi, nella sua risposta, riconosceva i passi avanti compiuti dai vertici del Pci sulle questioni religiose, ma non li riteneva sufficienti »per ottenere che i credenti, per quanto riguarda soprattutto i problemi fondamentali dello spirito, della famiglia e della scuola, che dovranno essere risolti nella Costituzione, si affidino tranquillamente a loro». Lanciava quindi la sfida della Costituente, che sarebbe stata il banco di prova su cui gli italiani avrebbero potuto giudicare se determinate aperture dei comunisti erano frutto di una »tattica esteriore per conquistare un Paese cattolico o mutamento interiore di propositi e di convinzioni». Inoltre affermava che non si potesse comunque pensare che di colpo fossero sparite le differenze tra cristiani e marxisti, e dunque citare in campagna elettorale questioni legate alla dimensione religiosa appariva pienamente legittimo.
On. Alcide De Gasperi Presidente del Consiglio dei Ministri Roma
Caro De Gasperi,
leggo sul «Popolo» che parlando a Viterbo ieri sera avresti detto che «di fronte al problema religioso i comunisti hanno promesso la tolleranza, cioè la non punizione di chi manifesta e professa idee religiose» e proseguito affermando che questo è «troppo poco».
Sono d’accordo con te che sarebbe «troppo poco», e per questo è bene metter le cose a posto. Naturalmente tengo il dovuto conto della difficoltà in cui tutti ci troviamo di veder pubblicati rendiconti esatti dei discorsi che pronunciamo; non posso credere, infatti, che siano da te ignorate le posizioni del mio Partito a proposito di quello che tu chiamo il «problema religioso».
Nella risoluzione del nostro V Congresso, che contiene l’essenziale del nostro programma per la Costituente, è detto che noi rivendiamo libertà di coscienza, di stampa, di culto, di associazione e propaganda politica, sindacale e religiosa.
Nel mio discorso allo stesso V Congresso è stato detto inoltre che noi accettiamo l’attuale regime concordatario né credo ti risulti, in tutta la mia attività di governo, un atto qualsivoglia in contrasto con questa dichiarazione. Da parte mia, non mi risulta di aver avuto con te il minimo contrasto a proposito di una questione che riguardasse anche lontanamente la religione.
Qualora la tua affermazione si riferisse al mio partito, per quanto, trattandosi di associazione privata, non sarebbe qui applicabile la nozione di «punizione», nel nostro Statuto è detto semplicemente che possono entrare nel partito i cittadini italiani di ambo i sessi che abbiano raggiunto una determinata età, indipendentemente dalla razza, dalla convinzione religiosa e dalle convinzioni filosofiche. Nulla a che vedere, quindi, nemmeno per questo aspetto, con ciò che tu avresti detto.
Mi scuserai il fastidio di queste citazioni e di questi richiami; e ti dico subito perché ho voluto infliggertelo.
So che nella lotta elettorale certe esagerazioni sono quasi inevitabili, e non mi impressiona per nulla il fatto che agitatori inesperti e di scarsa buona fede, credendo di ledere la mia troppo solida reputazione di buon italiano, accusino alle volte [te] di tollerare nel Ministero che tu presiedi un Guardasigilli di nazionalità [non] italiana. Credo però che almeno i dirigenti dei grandi partiti nazionali contribuiranno alla chiarezza e lealtà della vita politica e renderanno quindi un grande servizio al paese se, nel discutere tra di loro davanti al popolo, esamineranno, discuteranno, confuteranno le posizioni dei loro avversari riproducendole esattamente, senza contraffazione alcuna. Il mio Partito, che è fiero di aver aperto con la sua iniziativa, per il bene di tutto il paese, l’attuale periodo di collaborazione governativa tra i partiti diversi, si sforza di attenersi sempre a questa regola. Io poi ritengo che se tutti si attenessero ad essa la lotta politica comincerebbe realmente a svolgersi su un piano elevato, del che tutti trarrebbero vantaggio. Ma tu già hai capito che io sono un impenitente idealista, e quindi troppo spesso inascoltato. Spero almeno di riuscire a qualcosa questa volta.
f.to Palmiro Togliatti Roma, 8 aprile 1946
[Tratto da "La guerra di posizione in Italia - Epistolario 1944-1964" di Palmiro Togliatti. A cura di Gianluca Fiocco e Maria Luisa Righi, con la collaborazione della Fondazione Istituto Gramsci. Pubblicato da Einaudi. 1ª edizione - 2014]