Tag: Matteo Renzi

  • Vi consiglio di leggere questo articolo di Francesca Borri pubblicato, poco fa, su Internazionale.


    Al Sisi è uno statista, is a great leader, ha detto Matteo Renzi ad Al Jazeera a proposito del generale egiziano arrivato al potere il 3 luglio del 2013 con un colpo di stato che ha rovesciato il presidente democraticamente eletto Mohamed Morsi, e lasciato sull’asfalto quasi mille morti.

    Da allora, Abdel Fattah al Sisi è protagonista non solo delle strade del Cairo, tappezzate di sue gigantografie, ma anche dei rapporti di Amnesty international. Dal colpo di stato alla fine del 2014, gli attivisti uccisi sono stati oltre 1.400. Quasi duemila gli arrestati, innumerevoli e imprecisati quelli spariti nel nulla. Centinaia i torturati. […]

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  • minimalistic_pen_moleskine_pencils_solitario_cuaderno_notebook_simple_desktop_1920x1200_wallpaper-290668_INVERSO

    Per me, questi, sono giorni difficili. Amici con cui ho condiviso un percorso importante hanno deciso di lasciare il partito, quel partito che volevamo cambiare, partendo da quel congresso del 2013, con un programma innovativo e pieno di grandi speranze. Quella speranza non c’è più, ma forse soltanto in apparenza.

    Scrivo, riscrivo. Ho un taccuino su cui scrivo, ogni giorno, quello che mi frulla per la testa. È, un po’, il mio migliore amico nei momenti in cui mi fermo, guardo nel vuoto e penso. Penso a quello che è successo, a quello che succede e succederà; alle parole spese con tutti coloro con cui ho il piacere di confrontarmi, anche animatamente, ogni giorno.

    Lo dicevo, qualche giorno fa, ci stiamo incattivendo tutti. La pazienza sembra ormai un miraggio e la testardaggine è ormai declinata nel suo significato più negativo, quello di non voler più sentir ragione, di non accettare che qualcuno la pensi diversamente, arrivando anche a tacciarlo con nomignoli di dubbio gusto, che snaturano il dibattito politico.

    Da quando Civati ha deciso di abbandonare il PD, ho sentito un grande senso di smarrimento; uno smarrimento dovuto non per aver perso un punto di riferimento, ma frutto di una forte delusione, forte quanto l’aver creduto nel sostegno di quella visione Ma ora? Ora cosa dobbiamo fare?

    Certo, se si vogliono prendere applausi dagli scontenti, l’unica cosa da fare è dire che “il PD è un calderone di schifo e meno schifo”, dire che la tessera non serve più a nulla e denunciare una “deriva a destra” del partito. No. Non è così che vanno le cose.

    Mi hanno detto che l’unica ragione per cui io mi trovi nel PD è quella di voler soddisfare i miei interessi; per ambizione personale; per “poter mangiare dalla politica, una ghiotta occasione che solo il PD oggi può dare” (cit.).
    Voglio rassicurare queste persone: sono nel PD dal 2010, stavo per finire il 3° anno al liceo; avevo (e ho ancora) solo la voglia di potermi rendere utile alla collettività. Non sapevo neanche cosa fossero gli interessi personali. L’ho imparato dopo, guardandomi attorno.
    E dirò di più: chi dice questo è tra i responsabili del decadimento culturale del nostro Paese; di quella mancanza di visione che oggi ci consegna nelle mani dei populismi, dei qualunquismi e della mediocrità. Un macigno, questo, che non riusciremo mai a toglierci di dosso se non cambiamo rotta prima noi stessi, con il nostro modo di fare e di pensare (e di parlare).

    Visto che ci sono, aggiungo anche una piccola nota al post di qualche giorno fa, in cui spiegavo le mie ragioni per la divergenza politica che ho maturato con Pippo Civati: la sinistra “extraPD” ha sbagliato senso di marcia. L’unico modo per poter migliorare il panorama politico era quello di confluire nel Partito Democratico e non di andar via. Bisognava creare lì un’alternativa a Renzi, alla sua visione, nel rispetto del risultato del Congresso, lavorando pancia a terra per una proposta lungimirante e di sinistra.
    Questo non è stato fatto e, per l’ennesima volta, la sinistra preferisce scindersi, partire dai nomi, anziché dalle idee. Una sinistra che – a sentire l’On. Fratoianni (SEL) – aspettava l’uscita di un nome dal partito per poter creare “gruppi comuni”, come se servisse quel nome per poter partire. Insomma, un progetto che ancor prima di nascere segna già un fallimento culturale; un fallimento culturale che puzza di quel berlusconismo ormai fagocitato da tutto il ceto politico, che spinge i partiti e i movimenti a stringersi attorno ad un nome e su quello strutturare una sintesi, contornata dall’eterna contrapposizione a chi la pensa diversamente. Un’alternativa “contro” non andrà mai da nessuna parte.

    E quindi il punto è se restare o andar via, dichiarare il fallimento delle proprie scelte e abbandonare il gioco quando questo si è fatto duro. Io non mi reputo un duro, ma ho soltanto la testardaggine di chi crede in qualcosa, di chi vuole andare controcorrente (perché, oggi, essere controcorrente significa restare) e sa che è la scelta migliore.

    Mi dispiace per chi è andato via e di chi non ha avuto il coraggio di farlo prima che qualcuno aprisse le danze. Mi dispiace.

    Ecco, se dovessi finire questo post con un augurio, questo sarebbe quello di raggiungere la consapevolezza che la risposta giusta è aggregazione e non disgregazione. Un’aggregazione sana, però, a cui nessuno pone una priorità, neanche e soprattutto chi va via.

  • renzi_espresso

    Marco Damiliano, sull’Espresso, anticipa un’inchiesta che uscirà domani sul settimanale. Parla di un possibile cambio di nome. Ecco, questo è più pericoloso e dobbiamo evitarlo. Oppure vogliamo rassegnarci in partenza?

    Leggi: Fatto l’Italicum, Matteo Renzi pensa a un nuovo nome per il Pd: i Democratici

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    Seguivo Civati sin dai tempi di Prossima Fermata Italia – l’evento organizzato assieme a Renzi. Molti degli attuali renziani d’assalto guardavano con diffidenza quel progetto. Molti non erano nel PD, erano nel centrodestra, oppure strizzavano l’occhio al qualunquismo (o entrambe le cose).

    Al Congresso del 2013 decisi di supportare Pippo Civati, perché riconoscevo nel suo programma un potenziale enorme; un potenziale che ancora oggi custodisce. Invano.

    Durante la fase congressuale ci spendemmo al massimo per sostenere la sua candidatura- una candidatura collettiva, che sentivamo nostra, sperando che da quel momento potesse partire un progetto alternativo a quello di Renzi; a quello dei soliti tromboni, in una eterna fase di riciclo politico.

    Niente da fare. Quella speranza ci ha voltato le spalle lasciandoci in compagnia della delusione. Scottante, difficile da accettare.

    Non si può pensare di cambiare il Paese senza cambiare il partito del 40%, una percentuale di consensi frutto non soltanto di Renzi, ma di tutte le componenti del PD. Chi nega ciò è in malafede, oppure non sa di cosa parla. Era più facile cambiarlo dall’interno, e non dall’esterno. Questa è logica elementare.

    L’ho detto e ridetto, ormai ho perso il conto: molte delle rivendicazioni portate avanti negli scorsi mesi non erano credibili, perché non solo si basavano su una logica di contrapposizione perenne, ma anche perché – con un piede già fuori dal partito – è difficile che quest’ultimo tu riesca a condizionarlo, a far comprendere davvero che quella posizione, assunta in direzione nazionale o in Parlamento, sia frutto di una voglia di contribuire alla costruzione di un progetto politico che pianti le radici nel PD e grazie ad esso cresca.

    La responsabilità di tutto ciò non è da attribuire soltanto a Civati, ma anche all’attuale maggioranza, a quel metodo poco consono per un partito che ha diverse sensibilità al suo interno. Se vinci un Congresso devi non solo realizzare quanto hai detto durante la campagna, ma devi essere capace di trarre ricchezza da quella diversità insita dentro il partito. Facile dire “abbiamo fatto più Direzioni noi in un anno che Bersani in tre“, perché il punto non è quante ne fai, ma come le fai. Molte volte le Direzioni sono state delle pure formalità, diciamocelo.

    Oggi Pippo è fuori, prima di lui qualcuno lo aveva anticipato. Io non ho alcuna intenzione di muovermi da qui, dal mio partito. Sono un nativo democratico, non ho avuto nessuna tessera se non quella del PD. Prima di aderire decisi di studiarmi attentamente la sua Carta dei Valori, ed è proprio in quei valori che trovo la forza ogni giorno, in quei valori che la sua giovanile sviluppa ogni giorno.

    Oggi Pippo è fuori ed io dentro. Sono deluso, me ne faccio una ragione e vado avanti, nel rispetto del risultato congressuale e nel rispetto di chi ha votato quella mozione perché voleva un PD che andasse in quella direzione e non altro.

    Rispetto Pippo e la sua scelta, ma non la condivido.

  • Quando Corradino Mineo, senatore del PD, fu sostituito in commissione Affari Costituzionali del Senato, a seguito del voto sulle riforme costituzionali che il Governo Renzi stava portando avanti sul Titolo V, mi indignai. Ero furibondo, denunciavo una deriva autoritaria senza precedenti nel Partito Democratico. Ma oggi ho compreso qualcosa in più, o meglio, l’ho capito da un po’ di tempo, soprattutto da quando dopo ogni Direzione nazionale, le polemiche non si appianavano, a favore di una responsabilità di gruppo ma, anzi, aumentavano di volume, fino quasi a scoppiare.

    Oggi tocca a 10 deputati, sempre del PD e sempre nella Commissione Affari Costituzionali di Montecitorio, questa volta sull’Italicum. Cambia l’oggetto della contesa, ma il senso è sempre quello: non c’è rispetto della volontà comune. E mi dispiace dirlo, ma questa mancanza parte proprio dalla minoranza del PD, quella stessa minoranza che, quando fu eletta in Parlamento, era maggioranza – con lo stesso Bersani (tra i 10) segretario nazionale. Ma oggi, come sappiamo, il panorama politico – almeno nel PD – è stato completamente stravolto. Ci sono stati diversi appuntamenti elettorali di mezzo, tra cui quello che a noi interessa di più, in questo ragionamento – il Congresso del PD. Quel congresso, nel 2013, Renzi lo vinse con il 67,55%, ma qualcuno non l’ha ancora capito (o fa finta di non averlo capito). E lo dico io, che renziano non sono, che allo scorso congresso ho supportato la candidatura di Giuseppe Civati.

    Ma quindi, ecco il punto: se il partito, in Direzione nazionale, approva la legge elettorale, questa in Commissione non deve avere nessun tipo di ostacolo da parte degli stessi parlamentari PD perché, per quanto non gradisca l’Italicum, se è stato votato a maggioranza nelle sedi opportune (come da Statuto), quel voto deve essere rispettato e onorato, altrimenti stare in un partito non avrebbe senso e trasformeremmo il Parlamento in un grande Gruppo Misto in cui ognuno si fa gli affari propri.

    Ma, fatta la legge trovato l’inganno: sicuramente vi starete dimenando con in mano la Costituzione e il suo art.67, avete ragione, infatti qui non si mette in dubbio la libertà di mandato, ma la Commissione rappresenta i partiti in quanto forze politiche, non i singoli parlamentari. Lo scandalo ci sarebbe stato se si fossero costretti dei parlamentari a rimettere il loro mandato e ad andare via dal Parlamento perché dissidenti. In quel caso sarei sceso per le strade anch’io e mi sarei messo ad urlare contro la nuova dittatur. Ma così non è. E lo sappiamo tutti.

    Perciò, in fin dei conti, la Ditta ha cambiato titolari e i vecchi vogliono portare via la cassa e qualche mobile (per rimanere nello stile metaforico bersaniano), ma non va bene. Non va bene per niente.

    Siamo sicuri che sia sempre e solo colpa degli altri?

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    In questi giorni, dopo la manifestazione degli Unions – la coalizione sociale capeggiata da Maurizio Landini – a Roma, mi sono ritrovato a riflettere su cosa, di fatto, quella manifestazione significasse.

    La contrapposizione, in Italia, si è fatta molto aspra, su ogni fronte, ma a me pare che si stia imboccando una strada già vista, già percorsa, che non porta a nulla di nuovo. Mi spiego meglio.

    L’altro giorno, su Facebook scrissi

    Sono un ragazzo di 21 anni. Sono di sinistra, ma non mi riconosco negli Unions. Come faccio?

    Era, evidentemente, una domanda provocatoria, ma quello che ho potuto comprendere è che non c’è la minima intenzione a fermarsi un attimo, non per temporeggiare, ma per riflettere attentamente su quanto sta accadendo e sul significato di quella manifestazione e del ruolo assunto da Landini.

    Non mi riconosco negli Unions, questo è chiaro, ma non per una semplice contrapposizione di simboli o sigle, ma perché, come ho più volte detto su questo blog, nascono nuovi soggetti politici, nuovi “movimenti”, ma sempre partendo da una persona, da un nome. Mai da una idea. Questa cosa accade anche a sinistra. Soprattutto a sinistra, negli ultimi tempi.

    Da Bertinotti a Landini, passando per Vendola, Ingroia e Tsipras. Un percorso dettato dai tempi, dalle esigenze di stringersi per fare massa? Io credo che la sinistra, quella che punta non a rappresentarsi ma a rappresentare (cosa ben diversa) non può nascere così, e i fallimenti sono sotto gli occhi di tutti. Che fine ha fatto Rifondazione Comunista? Sinistra Ecologia Libertà? Qual è stato il destino de L’Altra Europa con Tsipras? L’ultima volta che ne ho sentito parlare è stato per un litigio furibondo tra i sostenitori di quella lista e Barbara Spinelli, per non aver rispettato la parola data – cioè di lasciare il seggio all’Europarlamento (poltrone, ndr).

    Maurizio Landini è uno di quei sindacalisti tosti, l’ha dimostrato più volte, l’unico leader sindacale carismatico presente oggi in Italia. Questo lui l’ha capito e lo utilizza a suo favore, ovviamente. Ma Landini, che dice di voler rappresentare i lavoratori, sa quanti lavoratori si sentono rappresentati da lui e dalla FIOM? L’Espresso ha svolto un’inchiesta sull’argomento e non mi sembra ci sia tanto da essere felici. E visto che stiamo, si chieda se i puri e gli onesti sono quelli che sfruttano i permessi sindacali per farsi gli affaracci propri, o quelli che usano la L. 104/1992 per andarsene in vacanza. Perché, sia ben chiaro, ladri e farabutti sono i politici corrotti, incompetenti e collusi, ma lo sono anche queste persone. O no?

    Che Landini dica di avere già un partito e che quel partito sia il sindacato, poco ci credo e non penso di essere il solo. Mi dispiace che il segretario della FIOM abbia deciso di fare politica? Assolutamente no, ognuno può farlo, l’hanno fatto Cofferati ed Epifani (per citarne due), non vedo come non possa farlo anche lui. Ma il problema è sempre quello: dove si vuole arrivare? Io credo non troppo lontano. Perché c’è sempre un nome, prima di un senso di comunità. C’è sempre la ricerca di un nome dietro cui stringersi e sempre la caccia ad un nemico davanti cui schierarsi. Lo fa capire anche un grande sostenitore di quella manifestazione, chiamando, il leader FIOM, “l’AntiRenzi”.

    10985570_916199365086276_6726304704017420045_nL’eterno ritorno dell’uguale. Una sinistra che non sa rinnovare le proprie menti e i propri volti. Dietro Landini ci saranno sempre i soliti parassiti che cercheranno di rubare quanta più linfa vitale per sopravvivere. Se in questo Paese un soggetto autorevole di sinistra non c’è, non è colpa di Renzi o del PD, ma è colpa della sinistra stessa, incapace di saper essere Sinistra. Ma questa è un’altra storia.

    Non è di sinistra colui che urla contro un manifestante solo perché sceso in piazza con la bandiera di un partito in cui crede. Se quello è essere di sinistra, vuol dire che stiamo tornando alla preistoria. O forse si è solo gli ennesimi tifosi.