Tag: Matteo Renzi

  • Per chi se lo fosse perso, ecco il confronto tra il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Presidente emerito della Corte costituzionale, circa il referendum del prossimo 4 dicembre. L’incontro è andato in onda il 30 settembre, su La7, condotto dal Direttore Enrico Mentana.

  • È tornato.
    Per l’ennesima volta, il Ponte sullo Stretto di Messina è tornato alla ribalta della cronaca nazionale. “Ed è tutto così bello. Bellissimo. Molto bello.” (semicit.).

    La routine quotidiana dei dibattiti all’italiana, ormai, mi assale ogni giorno, a tal punto che non ho più bisogno di leggere una pagina di giornale per sapere di cosa e come si stia parlando in questi giorni.

    All’ennesima dichiarazione del Presidente del Consiglio in carica, della realizzazione del Ponte, ennesime sono anche le dichiarazioni a favore e contro. Tornando a travolgere, come un vortice potentissimo, l’opinione pubblica e l’intera classe politica del Paese.

    La storia del Ponte è lunghissima, c’è chi addirittura fa risalire tale idea alle Guerre Puniche, come ci racconta Il Post nel suo articolo a riguardo. Ma tra gli alti e bassi di questo progetto, ciò che riconosco è una totale inadeguatezza del nostro Paese di fronte a temi come questo. Inadeguatezza che parte, senza ombra di dubbio, proprio dalla classe politica che azzarda, che strilla, che si oppone senza un minimo fondamento e che avvalla idee sulla base di chi le ha proposte.

    Ho letto di tutto, nelle ultime 48 ore: dalle dichiarazioni del Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ai commenti più insulsi e populisti degli ultimi tempi ma, finito di leggere, non mi è chiaro cosa sia giusto o cosa sia sbagliato, cosa convenga e cosa no.
    Sono un coglione, per questo? Forse. Pensate quello che volete.
    Fatto sta che mi sono rotto le scatole di ritrovarmi in un dibattito che sembra un minestrone di risate, battute e poco altro, dove numeri e studi del settore vengono sventolati come fossero volantini, senza capirli a fondo, senza chiedersi se qualcosa sia cambiato dall’ultima volta in cui se n’è parlato.

    Ma quindi? Questo ponte? Si farà o non si farà? Bisogna essere a favore o contro? Io, dal canto mio, le domande me le sono poste (e pure tante), ma una risposta oggettiva non riesco a darmela e non credo di essere nelle condizioni di farlo, salvo non voglia anche io schierarmi dalla parte di coloro che hanno sempre una risposta a tutto, dalla formazione della Nazionale a come salvare il Pianeta dalle tempeste solari.

    I pro e i contro sono tanti, qui qui ne trovate un’elencazione abbastanza chiara, ma al netto di tutto, questa grande opera risulta essere il sogno proibito di diverse generazioni ma, allo stesso tempo, un progetto complicato nella sua interezza e per il contesto storico e geografico in cui si trova, nei suoi risvolti sociali, economici e ambientali che porta con sé, in positivo e in negativo.

    Lascio, dunque, la trattazione di tale argomento a chi, con tutti gli strumenti necessari, può dare il suo parere autorevole alla realizzazione, o meno, di questa grande opera, con professionalità, competenza e chiarezza.
    Solo a seguito di tali pareri e studi aggiornati, sapremo affrontare la discussione sul Ponte con argomenti solidi e con tutta la conoscenza necessaria per non trasformare, l’ennesimo dibattito pubblico, in una chiacchiera da bar.

  • Ventotene, 22 agosto 2016. Tre leader europei. Due socialisti e una popolare – due visioni politiche differenti dell’Europa – appongono fiori sulla tomba del padre del sogno della Federazione europea, nel luogo in cui tutto ebbe inizio: l’isola del confino, in cui Spinelli, assieme a Rossi, Colorni e Hirschmann si ritrovarono, forse per caso, a sognare ciò che oggi arrancando cerchiamo di realizzare, seppur parzialmente.

    Quanta strada ancora c’è da fare, eppure quei fiori vogliono significare qualcosa, ma cosa?
    Spinelli sognava un’Europa federata, quelli che noi oggi chiameremmo, azzardando, “Stati Uniti d’Europa”, ma cosa c’è oggi di quella federazione?
    Gli autori del Manifesto di Ventotene spiegavano come il primo passo fosse l’unione politica, piuttosto che quella economica e finanziaria – step successivi alla prima – per evitare uno stravolgimento del processo di unificazione che portasse a consolidare le singole posizioni nazionali sul piano politico, ritenendo sufficiente l’unione sul piano economico.

    Oggi gli Stati membri dell’UE fanno fatica ad immaginare un Continente composto non più da singole nazioni, ma da una Comunità nuova, fatta di centralità politica europea e di condivisione massima. Da stati federati, per l’appunto.
    Oggi continuiamo a rincorrere le borse d’Europa, i mercati finanziari e a stigmatizzare il lavoro del Parlamento europeo gridando contro l’austerity – che ha calpestato la dignità di diversi popoli europei – fortemente voluta dalla Germania, la stessa Germania che ha posto i fiori sulla tomba di Spinelli.

    Nel frattempo, in tutta Europa le forze anti-europeiste si fanno sentire e diventano sempre più forti, soprattutto in Francia. Ma quindi?
    Quale risposta dare? Quale azione mettere in pratica?
    Bisognerebbe forse riprenderlo quel Manifesto, così grande e così lungimirante. Bisognerebbe studiarlo e farlo leggere a chi oggi l’Unione europea la guida, la rappresenta. Ma soprattutto farla conoscere a coloro che l’Europa sono, cioè i suoi cittadini.
    Dobbiamo avanzare sul piano dell’unione politica. Dobbiamo farlo se vogliamo che l’Europa sognata da Spinelli diventi realtà.
    Facciamo un piccolo grande passo, ad esempio: alle prossime elezioni europee non presentiamoci più con i diversi simboli dei partiti nazionali. Candidiamoci presentando agli elettori i simboli dei partiti europei, per dare un simbolo di unità politica, per consentire all’elettore di sentirsi, nell’urna, uguale al tedesco, al francese, all’olandese, allo spagnolo e così via.
    Che tutti gli elettori di centrosinistra europei barrino il simbolo del PSE, così come quelli di centrodestra quello del PPE e così via.
    Poco direte voi. Forse avete ragione, ma è dalle piccole cose che la coscienza si smuove e prima di preoccuparsi, forse, della coscienza dei governanti, dovremmo preoccuparci della nostra, ovvero quella dei governati.

  • Ed è giunto il momento di fare “sintesi”, di raccogliere le idee e cercare di dare una lettura personale di quanto accaduto durante queste Elezioni amministrative.

    Il dato è limpido: il Partito Democratico ha ricevuto uno schiaffone dietro al collo da parte degli elettori.

    Partiamo da quello che è successo a Roma. Sapevamo per certo che il primo turno avrebbe reso chiara la spaccatura nella Capitale, a fronte di ben 13 candidati sindaci, anche se quel 35% di Virginia Raggi era un chiaro segnale di attrazione dell’elettorato verso l’unica candidata che se pur espressione di un movimento nazionale, non aveva nulla a che vedere, personalmente, con dimensioni nazionali ma che sguazzava in un ritornello che ben conosciamo: “mandiamo a casa Renzi”. Gli altri candidati, Meloni, Fassina, Di Stefano, Adinolfi hanno utilizzato la Capitale come l’ennesimo trampolino del proprio movimento. Il “povero” Marchini, che se pur rispecchiava, anche solo in apparenza, il candidato slegato da dinamiche “estraraccordo anulare”, ha pagato il prezzo dell’incoerenza per il mutamento dal “liberi dai partiti” al “con i partiti, più di prima”.
    Roberto Giachetti – ex radicale, deputato PD e vice Presidente della Camera, già capo gabinetto al Comune di Roma con Francesco Rutelli – era una via di mezzo tra la traduzione nazionale del voto e le dinamiche locali ma, nella Capitale, una e l’altra sono tra loro intrecciate, per sfortuna dei romani.
    Il PD a Roma è stato una zavorra, l’ha detto lo stesso candidato sindaco e questo è un effetto chiaro e più che meritato, mi viene da dire, a seguito dell’irresponsabilità che il PD romano e quello nazionale hanno avuto sulla vicenda riguardante l’allora sindaco Ignazio Marino, con quel colpo di coda nel far cadere un’amministrazione che, forse, a questo punto, era meglio risollevare e proteggere, piuttosto che licenziare in quel modo (ricordiamo le dimissioni in massa dei consiglieri comunali).
    Giachetti ha fatto un ottimo lavoro, riuscendo ad arrivare al ballottaggio, contro ogni pronostico. Merito suo e di tutti coloro che l’hanno affiancato in questa competizione elettorale, ma dinanzi alla protesta dei cittadini incazzati dalle vicende pregresse, non c’è super candidato che tenga. Che sia ben chiaro a tutti e soprattutto a Renzi.
    Oggi, Virginia Raggi e il M5S hanno una responsabilità immensa: dovranno provare a risollevare la Capitale dallo stato in cui riversa, e per capire se ci riuscirà sarà indispensabile conoscere la squadra di assessori che l’affiancherà in Campidoglio. Tecnici? Politici? Competenti o amministratori alla prima esperienza?

    Per passare alla seconda città nella lista, qui il dato è da leggere in una chiave differente rispetto a quello della Capitale.
    A Milano, Beppe Sala vince le elezioni al ballottaggio. Una vittoria risicata: 20mila voti di scarto (51,70% contro 48,30%). Amministrazione uscente di centrosinistra, la quale ha portato ottimi risultati a casa nel primo mandato. Ma cosa paga, allora, il centrosinistra, nell’aver ricevuto uno scarto di vittoria così sottile?
    Giuliano Pisapia aveva, durante le Amministrative 2011, travolto la politica milanese. Dato come outsider alle primarie del centrosinistra, le vinse contro il candidato Stefano Boeri del PD (poi diventato suo assessore per poco tempo) ed altri candidati. Quel momento di confronto/scontro aveva acceso gli animi dei cittadini milanesi, riuscendo a trainare una nuova politica nella Capitale morale del nostro Paese, portando quella coalizione a vincere le elezioni contro ogni previsione. Risultato? Le primarie avevano fatto il loro dovere. Perché dico questo: se penso alle Primarie, la prima cosa che mi viene in mente è “lo strumento per eccellenza per rendere possibile l’impossibile”.
    Mi spiego meglio: le Primarie funzionano quando non sono scontate e non sono un mero atto notarile. Perché questo sono diventate, oggi: uno strumento per rendere ufficiale ciò che sapevamo da tempo essere ufficioso. Un “facciamo le primarie per legittimare ciò che abbiamo già deciso”. Questo è successo a Milano e, per inciso, anche a Roma.
    Sì, perché sia a Roma che a Milano le primarie sono state questo: da una parte Giachetti, candidato a delle primarie grigie, senza un vero competitor all’altezza della sfida; dall’altra Sala, nominato commissario straordinario per l’EXPO e diventato, magicamente, il candidato migliore per la coalizione di centrosinistra a Palazzo Marino. Il nuovo sindaco di Milano partecipa alle primarie sapendo già di aver vinto e il periodo di campagna elettorale fino al giorno dei gazebo diventa una semplice attesa per l’inaugurazione della campagna ufficiale del candidato sindaco e della sua coalizione.
    L’unico che ha cercato di rappresentare una discontinua continuità (gioco di parole voluto) rispetto all’Amministrazione Pisapia è stato Pierfrancesco Majorino, una candidatura vista con interesse ma che aveva il sapore della testimonianza, sin dagli albori.
    Ma il centrosinistra milanese paga la non ricandidatura di Pisapia. L’ex sindaco avrebbe dovuto ricandidarsi. Non l’ha fatto per ragioni personali e nessuno può sindacarne la legittimità, ma che non abbia avuto i suoi effetti sul voto mi pare una cosa poco probabile.

    Un fil rouge, quello delle primarie, che ci porta dal Centro al Nord, per poi tornare al Sud, nella Città partenopea, dove il PD non è neanche arrivato al ballottaggio, lasciando il posto al sindaco uscente, Luigi De Magistris, e al candidato del centrodestra, Gianni Lettieri. Il primo ha doppiato il secondo, al ballottaggio, dimostrando come ancora una volta i sentimenti e i mal di pancia non si percepiscono dai giornali o da dichiarazioni sporadiche di passanti al mercato rionale, ma nelle urne. De Magistris ai napoletani piace e quel 66,5% lo rende evidente e inciso col fuoco.
    Ma tornando al nostro filo rosso, a Napoli il PD ha celebrato le primarie tra l’evergreen Antonio Bassolino e la soldatessa Valeria Valente, inviata da Roma per vincere le elezioni? Certo che no. Per contrastare il possibile ritorno di Bassolino? Certo che sì. Quindi primarie dal sapore di congresso di partito, dove nella tracotante narrazione di una “Napoli che guarda al futuro”, l’unico vero obiettivo era una lotta all’homo politicus del già sindaco di Napoli, senza una reale proposta per la Città e senza il minimo carisma e polso necessari per competere con un sindaco uscente con, checché ne dicano alcuni, carisma e abilità, non pervenuti alla candidata democratica. Pensate che i cittadini non se ne rendano conto? Suvvia.

    Punito il partito a Napoli, così come a Roma, risalendo la Penisola ci imbattiamo nella rossa Bologna, da oggi più sul rosé. Virginio Merola, sindaco uscente, la spunta al ballottaggio, contro la candidata Lucia Borgonzoni, della Lega Nord. Merola, 5 anni fa, vinse al primo turno con il 50,5%. Il 5 giugno scorso si è fermato al 39,48% con, a seguire, la Borgonzoni al 22,27% e il candidato 5 Stelle, Massimo Bugani, al 16,54%. Bisognerebbe capire attentamente i flussi dell’elettorato, per capire cosa è realmente successo nel capoluogo dell’Emilia-Romagna, anche se il dato dell’affluenza è allarmante: dal 71,4% del 2011 al 59,65% del 1° turno del 5 giugno (al ballottaggio il dato è sceso ulteriormente al 53,17%).
    Qui il punto è uno: se la rossa Bologna sfancula il centrosinistra e il PD è perché la spia che segnala come su molte questioni ci siamo spostati al centro è accesa e lampeggia insieme a noi. Elettorato con paraocchi? No, grazie. E meno male che è così, in modo da aiutarci a capire che c’è qualcosa che non va e a fermarci per guardarci i piedi e riflettere. Inevitabilmente ha influenzato anche l’attività amministrativa della Giunta uscente, quindi il dato è ibrido e si intreccia tra dimensione nazionale e locale, come Roma, se pur in un’ottica differente.

    Ciò che lascia perplessi è il risultato a Torino. Lì qualcosa è andato storto, eppure la città piemontese, rispetto a qualche anno fa, oggi si presenta più all’avanguardia, migliorata in diversi aspetti. Dai trasporti ai servizi ai cittadini, passando per il sistema rifiuti e il decoro urbano. Qui è inevitabile l’influenza del sentimento politico nazionale. Piero Fassino ha pagato il prezzo di essersi avvicinato troppo al Presidente del Consiglio e di rappresentare “il vecchio”, tanto da rimanerne folgorato e vedersi sfilare la seggiola di primo cittadino, da parte di Chiara Appendino, senza particolari demeriti. Si poteva fare di più? Certo, ma non vedersi riconfermato il ruolo di sindaco è un segnale forte e, accostandolo al dato dell’affluenza, comparandolo con quello di 5 anni fa, è ancora peggio: dal 66,53% (1° turno 2011) al 57,17% (1° turno 2016). Ma se vogliamo proprio farci male, possiamo dire che Fassino, alle scorse Elezioni, vinse al 1° turno con il 56,7%. Lo stravolgimento politico è ormai in fase avanzata e la direzione centrifuga dei flussi di voti dal PD e centrosinistra è palese: il M5S si rafforza, nutrendosi dell’elettorato di centrodestra ormai senza una bussola e un elettorato di centrosinistra che da un senso complessivo al suo voto, infilandoci dentro anche il dissenso verso il Governo. Inutile prendersi in giro.

    Questo è uno spaccato del Paese. È vero, le Amministrative riguardano le città, il voto serve per eleggere i sindaci e i consigli comunali, non per dare un giudizio al Governo di turno. Ma questo solo sulla carta o, quantomeno, nei piccoli centri, dove la dimensione locale è molto più forte delle dinamiche nazionali e dove il voto è più personale che politico.
    Nelle competizioni delle grandi città, di cui ho provato a dare una mia lettura, il voto politico c’è e più è grande la dimensione delle Elezioni più quel particolare si fa intenso. Un esempio tra tutti Roma, dove se il voto fosse stato sulla persona del candidato sindaco, non riuscirei a trovare elementi di comparazione tra Giachetti e Raggi, se non il semplice fatto che sono entrambi di Roma. Una persona di specchiata onestà e, soprattutto, competenza dimostrata negli anni, contro una consigliera comunale con 3 anni appena di esperienza all’opposizione e qualche click sul web. È chiaro che non si è votata la persona del candidato sindaco, ma cosa e chi quel candidato rappresentava.

    La domanda sorge spontanea: siamo sicuri che l’Italicum vada ancora bene a Renzi? Forse si è reso conto che il ballottaggio (anche a livello nazionale) porta a polarizzare l’elettorato tra elettori del PD e i “tutti contro il PD”, rappresentato dal M5S che riesce a catalizzare i voti anche del disperato centrodestra – che non riesce a trovare candidati in grado di contrastare quelli del PD, tranne sporadici casi – pronto a sostenere l’unico baluardo opposto al PD che ce la fa. Basta guardare i flussi di voti nella Capitale, dove Meloni, Salvini, Fassina e Marchini hanno votato per la Raggi, non per qualità della candidata e del programma elettorale, ma per una mera logica di contrapposizione al Governo e al Partito Democratico.

    Fatte tutte le analisi, ora arriviamo alla diagnosi: il Partito Democratico è diventato un comitato elettorale pro-Governo e senza più un’anima. C’è chi lo dice da tempo, ma mai è stato realmente ascoltato, anzi, addirittura tacciato per gufo e rosicone.

    Matteo Renzi non è in grado di essere, allo stesso tempo, Segretario del partito e Presidente del Consiglio. La coincidenza tra le due cariche, di cultura anglosassone, è un sogno politico che coltivo, ma riconosco nelle capacità di chi ricopre questi incarichi la possibilità di realizzarlo a pieno e nel migliore dei modi. Non è il caso nostro. Almeno attualmente.

    Un partito consegnato nelle mani di due vice segretari non ha senso. Intendere l’essere segretario di partito come io intendo il calcetto del sabato pomeriggio (pur non toccando un pallone dai tempi di D’Alema Presidente del Consiglio) è deteriorante per il PD e i militanti. Fare il Segretario non può essere un hobby. Il partito ha bisogno di qualcuno che se ne prenda cura a tempo pieno.

    Renzi faccia attenzione nell’addossare le responsabilità ai soli dirigenti locali. In parte è vero, l’establishment locale è gerontocratico in molte parti del nostro Paese, i circoli sono in mano ai detentori dei pacchetti di tessere e il tesseramento online ha accentuato e reso più facile il controllo delle terminazioni nervose del PD. Quindi c’è bisogno di un cambiamento radicale del modo di intendere il partito.

    Un soggetto politico schiacciato sulla figura del leader carismatico l’abbiamo vissuta già. Era dall’altra parte della staccionata, l’abbiamo sempre criticata e abbiamo visto la fine che ha fatto. Il Partito Democratico ha una particolarità che lo ha sempre reso diverso dagli altri soggetti politici: sopravvivere ai suoi leader. E così deve essere sempre.
    Detto questo, è fondamentale non legare il partito alla figura di Renzi o del suo Giglio magico. Ho letto alcune dichiarazioni di esponenti di spicco del Partito Democratico che ritiene il momento di eleggere un segretario a tempo pieno (bene), un segretario che sia un riflesso di chi detiene la premiership (male) e vede nella Boschi tale soggetto (malissimo).
    Vi spiego le parentesi: Un segretario a tempo pieno è fondamentale, soprattutto per un partito come il nostro – strutturato, con militanti veri e una complessità invidiabile; Un segretario scelto perché compatibile con il Presidente del Consiglio è  avvilente, tanto vale tenersi i due vice segretari e ci risparmiamo la farsa di eleggere una “guida” per la nostra Comunità politica; se questa persona, poi, debba essere la Boschi, non c’è elemento che non mi porti a pensare che chi asserisca ciò abbia una considerazione del ruolo del segretario come un semplice funzionario di partito o, peggio, un mero volto con cui presentarsi in pubblico. Per carità, il Ministro Boschi ha sue competenze, è una figura politica di rilievo che ha lavorato per dare alla luce una riforma costituzionale incisiva, sotto molti aspetti, ma il segretario di un partito deve avere una cultura politica altissima, più alta, addirittura, di quella di chi ricopre il ruolo di Premier. Lungimiranza, visione d’insieme, metodo di condivisione e, al tempo stesso, di rispetto della storia politica della Comunità che rappresenta, sono tutti elementi imprescindibili che il Ministro per le Riforme costituzionali non detiene a pieno.

    La scelta del segretario sarà un passaggio fondamentale per la rigenerazione del PD, ma se vogliamo che questa abbia gli effetti sperati è necessario un congresso aperto all’interno, ma chiuso all’esterno. Basta primarie aperte per la scelta del segretario nazionale. Modifichiamo lo Statuto e leviamo di mezzo quell’articolo che ritiene il segretario il candidato naturale del PD alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Sostituiamola con l’obbligo di procedere, lì sì, a primarie aperte e regolamentate, per la scelta del candidato premier, alla quale potranno partecipare tutti coloro che si riconoscano nei principi fondanti della Carta dei Valori e nel progetto del centrosinistra.
    Basta primarie aperte per questioni che riguardano il partito: un metodo che ha svilito il significato della tessera e del sentirsi militante. Poniamo fine alla possibilità di far scegliere il leader politico del partito a chi dello stesso si dimentica per 364 giorni all’anno, e si interessa a questo solo durante tali consultazioni.
    Diamo, inoltre, finalmente, ai militanti la possibilità di esprimersi sui temi rilevanti sulle quali il partito deve interrogare la sua base. Lo possiamo fare attraverso i referendum interni – online o nei circoli – dove e come riteniamo più opportuno.

    È forse giunto il momento di affrontare tali problemi una volta per tutte, anche perché non possiamo permetterci il lusso di voltare lo sguardo dall’altra parte, in vista, oltretutto, dell’appuntamento del Referendum costituzionale di ottobre prossimo.

    Riposta la lente d’ingrandimento, è giunto il momento di rimboccarsi le maniche.
    Scusate se ho scritto molto. Avrei voluto dirvi ancora di più.

  • Apprendo, dal sito dell’AGCOM, che il Partito Democratico stia invitando i suoi sostenitori ad astenersi dal votare al Referendum del 17 aprile prossimo, circa le concessioni per l’estrazione di petrolio dal sottosuolo marino.

    Ritengo tale posizione non conforme con lo spirito del PD. Un partito che ha nel suo nome l’aggettivo “Democratico” non può chiedere ai suoi militanti e sostenitori di non andare a votare.

    Lo ritengo un’incredibile caduta di  stile. La nostra Costituzione offre lo strumento del Referendum come unico mezzo, coadiuvato dalla proposta di legge d’iniziativa popolare, attraverso il quale i cittadini, in modo diretto, possono incidere sul sistema legislativo del nostro Paese.

    Il Segretario Renzi dovrebbe rendersene conto e agire di consenguenza. Detto questo, mi rivolgo proprio a te, caro Matteo, che sei il mio Segretario e a te dico che no, mi dispiace, ma declino l’invito.

    Voterò al prossimo referendum del 17 aprile, così come voterò al referendum di ottobre, sulla riforma costituzionale. Voterò sì, perché voglio dire la mia sulla politica energetica del nostro Paese, perché credo che si possa fare altro, nel 2016, anziché trivellare il nostro mare, fonte, oltre che di bellezza, di ricchezza, una ricchezza che non ha il colore del greggio, ma ha il colore del mare, quel blu acceso che fa da sfondo alle nostre belle città.

    Perciò, caro Matteo, posizionare il partito sull’astensione non è una bella cosa. Lo dico, perché lo penso davvero e perché credo che nessun partito debba mai permettersi di invitare i cittadini al non voto. È un ossimoro. Così come è un ossimoro che il Governo, lo Stato se vogliamo generalizzare, non abbia messo in moto la campagna informativa sul referendum di aprile. Sarà così anche per quello di ottobre? O forse, proprio perché lì si gioca la credibilità del Governo, sin da agosto, ci ritroveremo inondati di spot pubblicitari in cui si spiega la riforma e il perché votare a favore di questa.

    È un trattamento impari che non possiamo più permetterci, soprattutto quando, proprio oggi, è fondamentale invitare i cittadini a riprendere (perché è di questo che si tratta) ad interessarsi della Cosa Pubblica, attraverso la partecipazione e l’informazione. E il referendum è partecipazione ed informazione. Cos’altro potrebbe essere? Uno strumento di delegittimazione politica? Ma anche no.

    Dici bene, caro Matteo, che il governo da te presieduto è legittimo. La Costituzione non è un optional e questa parla chiaro sul chi ha il compito di proporre il Governo. Ma proprio perché la nostra Carta costituzionale non è un optional, dovresti conoscere bene l’art.1 comma 2 che dice “La sovranità appartiene al Popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione” e che tra queste forme c’è proprio il referendum, regolato dall’art.75 della stessa. E forse, non per ultimo, dovremmo ricordarci che l’istituto del referendum è stata una conquista di cittadinanza e di libertà e va difesa a spada tratta sempre e comunque.

    Spero, e concludo, caro Matteo, che la comunicazione istituzionale porti le informazioni sul referendum nelle case degli italiani, molti dei quali non sanno, probabilmente, che sia stato indetto e su cosa riguardi.

  • Pare che la rottamazione stenti a prendere piede all’interno del PD. Se a livello nazionale si è ottenuto un evidente rinnovamento della classe dirigente, a livello locale poco è stato fatto e poca attenzione viene destinata a questo tema. Se n’è accorto anche Richetti, che anti-renziano proprio non è.

    Quando Renzi diede il benservito a Letta, una delle ragioni era quella dello sdoppiamento della velocità. Da un lato il pimpante Renzi, neo segretario del PD, dall’altro l’allora Premier Letta, con uno stile diametralmente opposto, più cauto e lento. Era inaccettabile una situazione del genere, bisognava correre e il Governo doveva correre quanto il PD. Oggi, l’autista è uno solo, peccato che il PD abbia smesso di correre e che sia sprovvisto di un navigatore capace di indicare una direzione precisa e giusta.

    A livello locale, dal regionale ai circoli, la situazione è quella prospettata, grosso modo, da Richetti e che molti, prima di lui, avevano provato a testimoniare. Qui non si tratta dell’ennesima contrapposizione tra Nord e Sud, perché la situazione che vive un circolo in provincia di Bari è la stessa di quella di un altro circolo in provincia Torino.

    Ma quindi? Capite bene che non riuscirei a giustificare il fatto che, per l’ennesima volta, il principale luogo di discussione sui temi da sviluppare come partito, non siano i circoli e le assemblee del partito, ma una, ennesima, convention di area.

    Renzi deve decidere: o fa il Segretario come fa il Presidente del Consiglio, oppure decida di far tornare il partito a congresso e far scegliere il nuovo segretario nazionale. Per il bene di tutti.

  • Nichi Vendola ci riprova. Dopo Human Factor, adesso è il turno de “La Sinistra che cambia”. Stesse tonalità e stessi contrasti di colore, forse il font è leggermente diverso, ma per il resto siamo lì. Nulla di nuovo.

    Eppure Vendola dice di voler fare sul serio questa volta (quindi le altre volte si giocava, mi par di capire).

    “C’è bisogno di una sinistra di governo, capace di saper andare oltre le divisioni e oltre gli steccati” ideologico-opportunistici che hanno movimentato la vita a sinistra, nella politica italiana, da ormai anni (aggiungerei io, se proprio devo).

    Eppure tutto ciò nasce dall’ennesimo steccato, dall’ennesima divisione tra una parte della sinistra e tutto il resto della realtà che ci circonda. La Via Lattea dei partiti della sinistra pareva ormai fermo nella sua espansione, ma dopo l’ennesimo “non ci sto”, una nuova stella brilla nel cielo. Che si chiami Possibile o SEL o Coalizione Sociale, poco è importante, alla fine ci sarà sempre qualcosa che dividerà uno dall’altro e la ricerca della perfezione, dell’omogenea visione politica porterà sempre ad una frantumazione.

    Certo, si potrà ottenere una congiunzione di sigle, di movimenti e partiti in una sola “casa”, ma il cemento con cui quella casa sarà costruita è, diciamocelo, l’ennesima logica di contrapposizione, l’ennesima crociata verso il governo di turno, verso le politiche e le riforme. Bene la contrapposizione politica, ma quando è marcata da una visione chiara di cosa si vuole e di come si vuole realizzarla. Tutto il resto è pura rissa.

    Per dirne una, in conclusione, sembra una continua di quel teatrino messo in scena a Roma. Sinistra Ecologia e Libertà aveva chiesto le dimissioni di Marino, come aveva evidenziato il post a nome di Fratoianni, poi fatto sparire, mentre si esultava nel momento in cui le dimissioni arrivarono per davvero, accorgendosi, dopo qualche giorno, che Marino era diventato “l’anti-Renzi” romano e quindi un ripensamento sul Sindaco dimissionario era più che necessario, arrivando addirittura a non dimettersi davanti al notaio per far decadere l’Assemblea capitolina; raggiungendo la fantascienza quando, o per gioco o per qualche problema logico-cognitivo, tramite le agenzie si faceva girare la notizia che Ignazio Marino, prima simbolo del PD e di Mafia Capitale (quest’ultima viziata da una forte ignoranza sul tema), fosse in ballo come possibile candidato delle sinistre nella Capitale.

    Roba da matti!

    Nell’attesa, assistiamo all’ennesimo cambiamento di una sinistra che non cambia mai.

  • bilancio-pd-2-770x445

    Oggi, alle 15, ci sarà la Direzione nazionale del Partito Democratico. Tema: Mezzogiorno. Il motivo? È servito il documento della SVIMEZ per smuovere un po’ le acque e per capire che il Sud non se la passa proprio benissimo (ma neanche malissimo, sotto certi aspetti, per dire).

    Subito dopo l’allarme proveniente da quei dati, che parlavano di un’Italia divisa in due, con differenze che si allargano sempre più, il Ministro dello Sviluppo Economico, Federica Guidi, ha subito annunciato un piano di 80 miliardi sulle infrastrutture; oggi sul Corriere della Sera si parla di un fondo di 100 miliardi proveniente dall’Unione europea.

    Insomma, l’avete capito? Il problema del Sud è che non ci sono soldi da spendere, e con più soldi riusciamo a risolvere il problema del Mezzogiorno. Poveri gufi, tutti quelli che credono che il problema sia culturale e politico. Ne faremo brodo.

    Lanciato il progetto della banda ultra-larga. Finalmente, diremmo, anche se, per esempio, la Puglia ha cominciato ad installare sul proprio territorio la fibra ottica da un po’ di tempo a questa parte, attraverso l’utilizzo dei fondi comunitari. Devo dire che è stato fatto un ottimo lavoro, anticipando i tempi del Governo nazionale.

    Ma tornando a noi e ai famosissimi e sempre sbandierati “più fondi per il Sud”, è chiaro che per l’ennesima volta non comprendiamo il vero problema di questo divario socio-economico-politico che ha tranciato l’Italia in due. I soldi non faranno la differenza, ma saranno semplicemente uno dei tanti strumenti a disposizione, ma non saranno i più importanti. Lo strumento più importante è la testa.

    Il Mezzogiorno non puzza. Il Mezzogiorno ha tutte le carte in regola per competere sul mercato, per essere forza trainante di un Paese, ma soprattutto per non essere trattata come ultima ruota del carro. Un esempio tra tutti, l’azienda di Monopoli (BA) che ha fornito il Giappone di alcuni pezzi per i treni ad altissima velocità di ultima generazione.

    Vera sfida? Pensare che Bari e Milano non siano così distanti tra loro e che ipotizzare eventi di caratura internazionale (oltre che nazionale) in una città del Sud non sia eternamente impossibile. Bisogna riportare il Sud al centro dell’Italia e dell’Europa.

    Tutto qui? Certo che no. Cambiare atteggiamento verso chi manifesta un disagio, evidenzia un problema. Non sono piagnoni quelli che vogliono delle risposte o cercano di darle. Il primo passo per risolvere un problema è riconoscerne l’esistenza. Credo che questo non tutti lo abbiano capito (o non vogliono capirlo).

    Dunque? Cambiare atteggiamento su tutta la linea. Il Mezzogiorno cambierà quando a cambiare sarà la cultura, il senso civico, quando Europa non sarà semplicemente sinonimo di “Fondo Sociale Europeo”, “Fondo Europeo per lo Sviluppo Regionale” o “Fondo per le Aree Sottoutilizzate” e di qualche cartello di opera pubblica qua e la, ma quando sarà sinonimo di modello di sviluppo, di modello civico. Il Mezzogiorno cambierà quando la politica riuscirà a realizzare un sistema di sviluppo capace di non considerare il Sud e il Nord come due parti geografiche e diverse del Paese, ma come due modelli culturali e come tale partire da quei modelli per creare un sistema capace di saper trarre il massimo da ciò che rappresentano, da ciò che è insito nella Storia di ogni territorio.

    Non c’è errore più grande nel credere che ci sia un pezzo d’Italia che ne rincorra un altro. In questo momento le direzioni sono divergenti. Dobbiamo lavorare per un modello di sviluppo che accosti le due traiettorie, ma mai immaginandole come una dietro l’altra. L’abbiamo fatto e abbiamo sbagliato, ogni volta.

    Spero che nella Direzione di oggi si possa illustrare un nuovo panorama per il Mezzogiorno, dove i governatori delle regioni meridionali (tutti PD) sappiano sfruttare il loro ruolo e che il Governo non intenda il loro impegno come un ostacolo alla propria azione o, peggio ancora, una rivolta.

    Ci si salva e si va avanti se si agisce insieme e non solo uno per uno.