Ed è giunto il momento di fare “sintesi”, di raccogliere le idee e cercare di dare una lettura personale di quanto accaduto durante queste Elezioni amministrative.
Il dato è limpido: il Partito Democratico ha ricevuto uno schiaffone dietro al collo da parte degli elettori.
Partiamo da quello che è successo a Roma. Sapevamo per certo che il primo turno avrebbe reso chiara la spaccatura nella Capitale, a fronte di ben 13 candidati sindaci, anche se quel 35% di Virginia Raggi era un chiaro segnale di attrazione dell’elettorato verso l’unica candidata che se pur espressione di un movimento nazionale, non aveva nulla a che vedere, personalmente, con dimensioni nazionali ma che sguazzava in un ritornello che ben conosciamo: “mandiamo a casa Renzi”. Gli altri candidati, Meloni, Fassina, Di Stefano, Adinolfi hanno utilizzato la Capitale come l’ennesimo trampolino del proprio movimento. Il “povero” Marchini, che se pur rispecchiava, anche solo in apparenza, il candidato slegato da dinamiche “estraraccordo anulare”, ha pagato il prezzo dell’incoerenza per il mutamento dal “liberi dai partiti” al “con i partiti, più di prima”.
Roberto Giachetti – ex radicale, deputato PD e vice Presidente della Camera, già capo gabinetto al Comune di Roma con Francesco Rutelli – era una via di mezzo tra la traduzione nazionale del voto e le dinamiche locali ma, nella Capitale, una e l’altra sono tra loro intrecciate, per sfortuna dei romani.
Il PD a Roma è stato una zavorra, l’ha detto lo stesso candidato sindaco e questo è un effetto chiaro e più che meritato, mi viene da dire, a seguito dell’irresponsabilità che il PD romano e quello nazionale hanno avuto sulla vicenda riguardante l’allora sindaco Ignazio Marino, con quel colpo di coda nel far cadere un’amministrazione che, forse, a questo punto, era meglio risollevare e proteggere, piuttosto che licenziare in quel modo (ricordiamo le dimissioni in massa dei consiglieri comunali).
Giachetti ha fatto un ottimo lavoro, riuscendo ad arrivare al ballottaggio, contro ogni pronostico. Merito suo e di tutti coloro che l’hanno affiancato in questa competizione elettorale, ma dinanzi alla protesta dei cittadini incazzati dalle vicende pregresse, non c’è super candidato che tenga. Che sia ben chiaro a tutti e soprattutto a Renzi.
Oggi, Virginia Raggi e il M5S hanno una responsabilità immensa: dovranno provare a risollevare la Capitale dallo stato in cui riversa, e per capire se ci riuscirà sarà indispensabile conoscere la squadra di assessori che l’affiancherà in Campidoglio. Tecnici? Politici? Competenti o amministratori alla prima esperienza?
Per passare alla seconda città nella lista, qui il dato è da leggere in una chiave differente rispetto a quello della Capitale.
A Milano, Beppe Sala vince le elezioni al ballottaggio. Una vittoria risicata: 20mila voti di scarto (51,70% contro 48,30%). Amministrazione uscente di centrosinistra, la quale ha portato ottimi risultati a casa nel primo mandato. Ma cosa paga, allora, il centrosinistra, nell’aver ricevuto uno scarto di vittoria così sottile?
Giuliano Pisapia aveva, durante le Amministrative 2011, travolto la politica milanese. Dato come outsider alle primarie del centrosinistra, le vinse contro il candidato Stefano Boeri del PD (poi diventato suo assessore per poco tempo) ed altri candidati. Quel momento di confronto/scontro aveva acceso gli animi dei cittadini milanesi, riuscendo a trainare una nuova politica nella Capitale morale del nostro Paese, portando quella coalizione a vincere le elezioni contro ogni previsione. Risultato? Le primarie avevano fatto il loro dovere. Perché dico questo: se penso alle Primarie, la prima cosa che mi viene in mente è “lo strumento per eccellenza per rendere possibile l’impossibile”.
Mi spiego meglio: le Primarie funzionano quando non sono scontate e non sono un mero atto notarile. Perché questo sono diventate, oggi: uno strumento per rendere ufficiale ciò che sapevamo da tempo essere ufficioso. Un “facciamo le primarie per legittimare ciò che abbiamo già deciso”. Questo è successo a Milano e, per inciso, anche a Roma.
Sì, perché sia a Roma che a Milano le primarie sono state questo: da una parte Giachetti, candidato a delle primarie grigie, senza un vero competitor all’altezza della sfida; dall’altra Sala, nominato commissario straordinario per l’EXPO e diventato, magicamente, il candidato migliore per la coalizione di centrosinistra a Palazzo Marino. Il nuovo sindaco di Milano partecipa alle primarie sapendo già di aver vinto e il periodo di campagna elettorale fino al giorno dei gazebo diventa una semplice attesa per l’inaugurazione della campagna ufficiale del candidato sindaco e della sua coalizione.
L’unico che ha cercato di rappresentare una discontinua continuità (gioco di parole voluto) rispetto all’Amministrazione Pisapia è stato Pierfrancesco Majorino, una candidatura vista con interesse ma che aveva il sapore della testimonianza, sin dagli albori.
Ma il centrosinistra milanese paga la non ricandidatura di Pisapia. L’ex sindaco avrebbe dovuto ricandidarsi. Non l’ha fatto per ragioni personali e nessuno può sindacarne la legittimità, ma che non abbia avuto i suoi effetti sul voto mi pare una cosa poco probabile.
Un fil rouge, quello delle primarie, che ci porta dal Centro al Nord, per poi tornare al Sud, nella Città partenopea, dove il PD non è neanche arrivato al ballottaggio, lasciando il posto al sindaco uscente, Luigi De Magistris, e al candidato del centrodestra, Gianni Lettieri. Il primo ha doppiato il secondo, al ballottaggio, dimostrando come ancora una volta i sentimenti e i mal di pancia non si percepiscono dai giornali o da dichiarazioni sporadiche di passanti al mercato rionale, ma nelle urne. De Magistris ai napoletani piace e quel 66,5% lo rende evidente e inciso col fuoco.
Ma tornando al nostro filo rosso, a Napoli il PD ha celebrato le primarie tra l’evergreen Antonio Bassolino e la soldatessa Valeria Valente, inviata da Roma per vincere le elezioni? Certo che no. Per contrastare il possibile ritorno di Bassolino? Certo che sì. Quindi primarie dal sapore di congresso di partito, dove nella tracotante narrazione di una “Napoli che guarda al futuro”, l’unico vero obiettivo era una lotta all’homo politicus del già sindaco di Napoli, senza una reale proposta per la Città e senza il minimo carisma e polso necessari per competere con un sindaco uscente con, checché ne dicano alcuni, carisma e abilità, non pervenuti alla candidata democratica. Pensate che i cittadini non se ne rendano conto? Suvvia.
Punito il partito a Napoli, così come a Roma, risalendo la Penisola ci imbattiamo nella rossa Bologna, da oggi più sul rosé. Virginio Merola, sindaco uscente, la spunta al ballottaggio, contro la candidata Lucia Borgonzoni, della Lega Nord. Merola, 5 anni fa, vinse al primo turno con il 50,5%. Il 5 giugno scorso si è fermato al 39,48% con, a seguire, la Borgonzoni al 22,27% e il candidato 5 Stelle, Massimo Bugani, al 16,54%. Bisognerebbe capire attentamente i flussi dell’elettorato, per capire cosa è realmente successo nel capoluogo dell’Emilia-Romagna, anche se il dato dell’affluenza è allarmante: dal 71,4% del 2011 al 59,65% del 1° turno del 5 giugno (al ballottaggio il dato è sceso ulteriormente al 53,17%).
Qui il punto è uno: se la rossa Bologna sfancula il centrosinistra e il PD è perché la spia che segnala come su molte questioni ci siamo spostati al centro è accesa e lampeggia insieme a noi. Elettorato con paraocchi? No, grazie. E meno male che è così, in modo da aiutarci a capire che c’è qualcosa che non va e a fermarci per guardarci i piedi e riflettere. Inevitabilmente ha influenzato anche l’attività amministrativa della Giunta uscente, quindi il dato è ibrido e si intreccia tra dimensione nazionale e locale, come Roma, se pur in un’ottica differente.
Ciò che lascia perplessi è il risultato a Torino. Lì qualcosa è andato storto, eppure la città piemontese, rispetto a qualche anno fa, oggi si presenta più all’avanguardia, migliorata in diversi aspetti. Dai trasporti ai servizi ai cittadini, passando per il sistema rifiuti e il decoro urbano. Qui è inevitabile l’influenza del sentimento politico nazionale. Piero Fassino ha pagato il prezzo di essersi avvicinato troppo al Presidente del Consiglio e di rappresentare “il vecchio”, tanto da rimanerne folgorato e vedersi sfilare la seggiola di primo cittadino, da parte di Chiara Appendino, senza particolari demeriti. Si poteva fare di più? Certo, ma non vedersi riconfermato il ruolo di sindaco è un segnale forte e, accostandolo al dato dell’affluenza, comparandolo con quello di 5 anni fa, è ancora peggio: dal 66,53% (1° turno 2011) al 57,17% (1° turno 2016). Ma se vogliamo proprio farci male, possiamo dire che Fassino, alle scorse Elezioni, vinse al 1° turno con il 56,7%. Lo stravolgimento politico è ormai in fase avanzata e la direzione centrifuga dei flussi di voti dal PD e centrosinistra è palese: il M5S si rafforza, nutrendosi dell’elettorato di centrodestra ormai senza una bussola e un elettorato di centrosinistra che da un senso complessivo al suo voto, infilandoci dentro anche il dissenso verso il Governo. Inutile prendersi in giro.
Questo è uno spaccato del Paese. È vero, le Amministrative riguardano le città, il voto serve per eleggere i sindaci e i consigli comunali, non per dare un giudizio al Governo di turno. Ma questo solo sulla carta o, quantomeno, nei piccoli centri, dove la dimensione locale è molto più forte delle dinamiche nazionali e dove il voto è più personale che politico.
Nelle competizioni delle grandi città, di cui ho provato a dare una mia lettura, il voto politico c’è e più è grande la dimensione delle Elezioni più quel particolare si fa intenso. Un esempio tra tutti Roma, dove se il voto fosse stato sulla persona del candidato sindaco, non riuscirei a trovare elementi di comparazione tra Giachetti e Raggi, se non il semplice fatto che sono entrambi di Roma. Una persona di specchiata onestà e, soprattutto, competenza dimostrata negli anni, contro una consigliera comunale con 3 anni appena di esperienza all’opposizione e qualche click sul web. È chiaro che non si è votata la persona del candidato sindaco, ma cosa e chi quel candidato rappresentava.
La domanda sorge spontanea: siamo sicuri che l’Italicum vada ancora bene a Renzi? Forse si è reso conto che il ballottaggio (anche a livello nazionale) porta a polarizzare l’elettorato tra elettori del PD e i “tutti contro il PD”, rappresentato dal M5S che riesce a catalizzare i voti anche del disperato centrodestra – che non riesce a trovare candidati in grado di contrastare quelli del PD, tranne sporadici casi – pronto a sostenere l’unico baluardo opposto al PD che ce la fa. Basta guardare i flussi di voti nella Capitale, dove Meloni, Salvini, Fassina e Marchini hanno votato per la Raggi, non per qualità della candidata e del programma elettorale, ma per una mera logica di contrapposizione al Governo e al Partito Democratico.
Fatte tutte le analisi, ora arriviamo alla diagnosi: il Partito Democratico è diventato un comitato elettorale pro-Governo e senza più un’anima. C’è chi lo dice da tempo, ma mai è stato realmente ascoltato, anzi, addirittura tacciato per gufo e rosicone.
Matteo Renzi non è in grado di essere, allo stesso tempo, Segretario del partito e Presidente del Consiglio. La coincidenza tra le due cariche, di cultura anglosassone, è un sogno politico che coltivo, ma riconosco nelle capacità di chi ricopre questi incarichi la possibilità di realizzarlo a pieno e nel migliore dei modi. Non è il caso nostro. Almeno attualmente.
Un partito consegnato nelle mani di due vice segretari non ha senso. Intendere l’essere segretario di partito come io intendo il calcetto del sabato pomeriggio (pur non toccando un pallone dai tempi di D’Alema Presidente del Consiglio) è deteriorante per il PD e i militanti. Fare il Segretario non può essere un hobby. Il partito ha bisogno di qualcuno che se ne prenda cura a tempo pieno.
Renzi faccia attenzione nell’addossare le responsabilità ai soli dirigenti locali. In parte è vero, l’establishment locale è gerontocratico in molte parti del nostro Paese, i circoli sono in mano ai detentori dei pacchetti di tessere e il tesseramento online ha accentuato e reso più facile il controllo delle terminazioni nervose del PD. Quindi c’è bisogno di un cambiamento radicale del modo di intendere il partito.
Un soggetto politico schiacciato sulla figura del leader carismatico l’abbiamo vissuta già. Era dall’altra parte della staccionata, l’abbiamo sempre criticata e abbiamo visto la fine che ha fatto. Il Partito Democratico ha una particolarità che lo ha sempre reso diverso dagli altri soggetti politici: sopravvivere ai suoi leader. E così deve essere sempre.
Detto questo, è fondamentale non legare il partito alla figura di Renzi o del suo Giglio magico. Ho letto alcune dichiarazioni di esponenti di spicco del Partito Democratico che ritiene il momento di eleggere un segretario a tempo pieno (bene), un segretario che sia un riflesso di chi detiene la premiership (male) e vede nella Boschi tale soggetto (malissimo).
Vi spiego le parentesi: Un segretario a tempo pieno è fondamentale, soprattutto per un partito come il nostro – strutturato, con militanti veri e una complessità invidiabile; Un segretario scelto perché compatibile con il Presidente del Consiglio è avvilente, tanto vale tenersi i due vice segretari e ci risparmiamo la farsa di eleggere una “guida” per la nostra Comunità politica; se questa persona, poi, debba essere la Boschi, non c’è elemento che non mi porti a pensare che chi asserisca ciò abbia una considerazione del ruolo del segretario come un semplice funzionario di partito o, peggio, un mero volto con cui presentarsi in pubblico. Per carità, il Ministro Boschi ha sue competenze, è una figura politica di rilievo che ha lavorato per dare alla luce una riforma costituzionale incisiva, sotto molti aspetti, ma il segretario di un partito deve avere una cultura politica altissima, più alta, addirittura, di quella di chi ricopre il ruolo di Premier. Lungimiranza, visione d’insieme, metodo di condivisione e, al tempo stesso, di rispetto della storia politica della Comunità che rappresenta, sono tutti elementi imprescindibili che il Ministro per le Riforme costituzionali non detiene a pieno.
La scelta del segretario sarà un passaggio fondamentale per la rigenerazione del PD, ma se vogliamo che questa abbia gli effetti sperati è necessario un congresso aperto all’interno, ma chiuso all’esterno. Basta primarie aperte per la scelta del segretario nazionale. Modifichiamo lo Statuto e leviamo di mezzo quell’articolo che ritiene il segretario il candidato naturale del PD alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Sostituiamola con l’obbligo di procedere, lì sì, a primarie aperte e regolamentate, per la scelta del candidato premier, alla quale potranno partecipare tutti coloro che si riconoscano nei principi fondanti della Carta dei Valori e nel progetto del centrosinistra.
Basta primarie aperte per questioni che riguardano il partito: un metodo che ha svilito il significato della tessera e del sentirsi militante. Poniamo fine alla possibilità di far scegliere il leader politico del partito a chi dello stesso si dimentica per 364 giorni all’anno, e si interessa a questo solo durante tali consultazioni.
Diamo, inoltre, finalmente, ai militanti la possibilità di esprimersi sui temi rilevanti sulle quali il partito deve interrogare la sua base. Lo possiamo fare attraverso i referendum interni – online o nei circoli – dove e come riteniamo più opportuno.
È forse giunto il momento di affrontare tali problemi una volta per tutte, anche perché non possiamo permetterci il lusso di voltare lo sguardo dall’altra parte, in vista, oltretutto, dell’appuntamento del Referendum costituzionale di ottobre prossimo.
Riposta la lente d’ingrandimento, è giunto il momento di rimboccarsi le maniche.
Scusate se ho scritto molto. Avrei voluto dirvi ancora di più.