Camminavo. Lo facevo ogni giorno, da quando avevo sei anni. Camminavo da casa dei miei nonni a Via Pairoli n.6, una stradina buia, con un eterno odore di piscio putrido. In quella via ci abitavo, ricordo esattamente quel giorno in cui ci trasferimmo dalla periferia, fu una festa per me, perché avrei cominciato a vivere tra le vene principali della Città. Mi sentivo come un embolo, che da una gamba arrivava al cuore, pronto a far esplodere emozioni nuove e forti. Forse letali per il mio spirito, chi lo sa. Una cosa è certa: da quel giorno, ho conosciuto Peppe, abitava nel mio palazzo. Un ragazzo robusto, dall’aria affranta, ma che non risparmiava mai un sorriso quando incrociava il suo sguardo con il mio. Diventammo amici, penso nei primi tre minuti di chiacchiera. Era un ragazzo indaffarato, gli piaceva leggere libri di storia, militava nel partito di estrema sinistra della Città. Era fiero di quell’impegno ed io ero felice per questo.
Erano le tre del pomeriggio, dicevamo. C’era un sole tremendo. Ve l’ho già detto che era il 25 aprile? No? Bene, ora lo sapete. La casa dei miei nonni era vuota – loro sono morti anni fa – ci andavo ogni giorno, perché mi piaceva sedermi su quella poltrona comoda che il nonno aveva nel suo studio. Libri immensi sugli scaffali robusti e chilometrici di una libreria in ciliegio tarlato, sposati con la polvere da ormai decenni, con copertine scarlatte e titoli dorati ormai sbiaditi dal tempo. Molti di questi parlavano della Resistenza. Ci teneva tantissimo, a quei libri, perché riguardavano la sua vita. Vi ho già detto che mio nonno è stato un partigiano? No? Bene, ora lo sapete.
Quel giorno stetti più del solito, in quella casa. Avevo trovato un piccolo blocchetto, una di quelle agendine che oggi sono di moda. Era il diario di quei giorni di battaglia, contro quelli che lui definiva “la feccia della Storia”. Aveva la copertina rossa, pagine deboli che al contatto con le dita sembravano fare la fine dell’ostia con la saliva. Si scioglievano, sgretolavano in un battito di ciglia. Vecchia. Era molto vecchia quella agenda, di questo ne ero certo.
Di quelle pagine mi colpì una. C’era solo una frase, scritta con un inchiostro tremante più del solito. “Sappia il mio cuore reggere l’urto con il destino della mia Terra”. La lessi venticinque volte, la ripetevo ogni quattro passi, fino a casa. Da quel giorno guardavo il mondo con occhi diversi. Non mi sono dato ancora una risposta. Ma non fu l’unica cosa che mi percosse l’anima, quel giorno.
Mentre guardavo il soffitto, pensando a quella frase, mi arrivò un sms da Luigi – un amico con cui la sera del venerdì ero solito giocare a carambola, assieme a Peppe. “Accendi la tv sul primo canale. Ora!”. Non capii, ma mosso da una forza che non riuscivo a controllare mi alzai da quella comoda poltrona, mi diressi in cucina, accesi la vecchia televisione che la nonna fissava dall’alba al tramonto. C’era il telegiornale locale, mi era parso di vedere una strada a me conosciuta. Era via Pairoli, sentivo il puzzo di piscio nel naso solo a vederla. C’era molta gente, polizia, carabinieri e un’autoambulanza. Avevano picchiato a sangue Peppe e incisogli sulla fronte la svastica. Fu un paradossale shock per me. Nel giorno in cui si celebrava la fine della violenza nazifascista, quel giorno, quella stessa violenza, beffarda, si era presentata sotto casa, riempiendo di calci e pugni il mio amico Peppe. Alzai gli occhi da quello schermo, vidi la foto di mio nonno. Era come se piangesse.
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Oggi, Mauro Biani. Su Il Manifesto.
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giusto per non dimenticare cosa è stato per tutto il nostro Paese.