Categoria: Post-it

  • Scrivo queste righe in occasione dei miei 30 anni. Penso sia un modo per esorcizzarne l’arrivo.

    Chi mi conosce sa bene che non amo molto festeggiare, soprattutto quando la ragione della festa è qualcosa a cui ho contribuito poco. In fin dei conti, compiere gli anni è ciò che fai mentre provi a fare altro. In altre parole, il raggiungimento degli anni è solo parte del contesto e il contesto è fatto per scorrere sullo sfondo mentre gli attori vanno in scena.

    Non ho idea di quanti anni ancora scorreranno sullo sfondo ma, raggiunto il trentesimo atto, mi chiedo verso quale direzione stia proseguendo la regia e la sceneggiatura della mia opera teatrale.

    Sono successe molte cose nei miei “anni 20”, tra queste: mi sono trasferito in una nuova città, allontanandomi da ciò che fino a quel momento avevo costruito e allungando le distanze che mi separavano dai miei affetti; ho vissuto amori e infatuazioni fallimentari; ho provato cosa significa l’isolamento forzato, in una stanza di 15 metri quadri, senza alcun contatto fisico o una parola che non fosse scambiata senza l’intercessione del telefono; ho fatto e continuo a fare un mestiere che, ai tempi dell’università, giuravo di non voler fare mai.

    Eppure, mi accingo a svolgere questo esercizio esorcizzante (mi scuserete per lo scioglilingua), non per parlare di quello che ho fatto, ma di quello che ho capito. Perché se c’è una cosa che ritengo importante, per vivere bene e non sprecare neanche un singolo giorno, è quello di abbandonare la supponenza di chi crede di sapere sempre come vanno le cose e che non ci sia nulla da imparare da ciò che ti succede attorno. Meglio sentirsi sempre su un banco di scuola e non dare mai nulla per scontato, che essere davanti alla lavagna e fare la figura del somaro.
    Le esperienze che viviamo sono importanti anche e soprattutto per consentirci di arrivare più preparati alle prossime. Che poi, a pensarci, è una rielaborazione della teoria inflazionata del perché sia importante studiare la Storia.

    Mi presento, dunque, al checkpoint dei 30 anni con qualche sasso in più nelle tasche.

    Amare è difficile ma inevitabile. Ho scontato l’insopportabile sensazione che amare fosse qualcosa di insostenibile e di difficile realizzazione. Qualcosa che ormai non avrebbe più toccato le corde della mia esistenza. Lasciare, essere lasciati, lasciarsi vicendevolmente. A seconda di quale fosse la mano che impugnava il fendente, la luce che ha illuminato le diverse scenografie ha concesso un punto di vista unico in ognuno di quei momenti. Come un gioco di logica, unendo quei puntini vien tracciato un disegno in cui oggi mi ritrovo: amore e raziocinio sono uno l’antitesi dell’altro. Non siamo noi che decidiamo di amare, né tantomeno possiamo fuggire dal farlo. Possiamo essere superficiali nei nostri rapporti o, meglio, possiamo resistere ai rapporti superficiali per un certo tempo ma, presto o tardi, tutto crollerebbe per mostrare ciò che realmente è. Nel bene o nel male. Non possiamo simulare di amare una persona né, tantomeno, possiamo imporci dei limiti nel farlo.

    Non bisogna dimenticare, ovviamente, che per quanto amare sia inevitabile e allo stesso tempo ingovernabile, anche questo sentimento può finire e la sua esistenza (e persistenza) non può essere data per scontata. Come direbbero quelli bravi: l’amore va coltivato, ogni giorno.

    Quando un rapporto con una persona finisce, possiamo sentirci sollevati, o sprofondare nell’assoluta tristezza, ma il fallimento rimane e del fallimento non si butta via nulla. Neanche un solo grammo del fallimento va sprecato. Avendo fallito tante volte, ho capito come non sia possibile far finta che l’amore verso una persona esista, così come non potrei far finta del contrario. È il concetto stesso di protezione nei confronti dei propri sentimenti ad essere ossimorico: cercare protezione da tutto ciò che rientra nell’area semantica dei sentimenti è come cercare riparo da ciò che può ripararci da tutto il resto. È l’assenza dei sentimenti ad esporci a rischi e pericoli, tra cui il più pericoloso: vivere in modo asettico, senza alti e bassi, privo di qualsiasi sensazione che ci faccia sentire più di un insieme di azioni meccaniche come dormire, mangiare, respirare, andare di corpo e tornare a dormire.

    Che dispendio inutile di energie sarebbe quello di alzare barriere per ripararci da un improvviso coup de foudre? Parametri vitali al massimo, respiro profondo e muscoli tesi. Tutto è pronto per reagire ad un possibile incontro ravvicinato del terzo tipo. Non l’avrai vinta, mio acerrimo nemico! Eppure, finisci per capitolare appena i tuoi occhi cadono su una persona che, assorta nei suoi pensieri, è seduta in fondo ad una fila di sedie in un’aula di tribunale, mentre è lì per tutt’altro, proprio come te. Per dire.

    Non si vive senza abbracci. La Pandemia da Covid-19 ha spinto tutti noi ad interrompere le nostre relazioni umane nella loro dimensione fisica. Ho vissuto intere settimane da solo, a Roma, avendo a disposizione solo una stanza, un minuscolo bagno e una piccola cucina. Insieme a me non c’era nessuno e la cassiera del supermercato in cui andavo a fare la spesa, una volta ogni 10 giorni, era schermata da plexiglass, occhiali e mascherina.
    Per la prima volta, mi sono sentito un soggetto pericoloso e schivato, a cui veniva negato il contatto fisico. Ne sono uscito a pezzi e quei pezzi li ho rimessi insieme con il tempo, anche grazie alla psicoterapia.

    Se c’è una cosa che ho compreso da quell’esperienza, e che oggi riempie quel vuoto che aveva creato, è la consapevolezza di non poter vivere senza nessuno accanto, fosse anche con la sola idea di poter abbracciare qualcuno alla prima occasione utile. Ho capito di avere estremamente bisogno del contatto fisico.
    Per la rubrica “ce lo dice la scienza”: gli abbracci alleviano i sintomi dello stress, aiutano a ridurre la pressione arteriosa e a equilibrare i nostri modi di fare. Non dimentichiamoci, tra le altre cose, che i bambini appena nati aggrappano la propria esistenza al contatto fisico e privargliene implicherebbe condannarli ad epiloghi anche catastrofici (link).

    Non avevo mai fatto i conti con questa parte di me, eppure ho capito che senza la possibilità di poter toccare anche solo un braccio di un altro essere umano io non so stare. È una mia debolezza o una mia forza? Non lo so e non me lo pongo certamente come un problema, eppure così è e se c’è una cosa che ho ulteriormente capito è che non bisogna dar per ovvio nulla, neanche l’esistenza di un abbraccio.
    Di questo sono grato al lockdown, perché tra le mille miserie che mi ha lasciato intorno, è grazie ad esso se oggi, quando abbraccio qualcuno lo faccio dandoci l’attenzione che merita.
    Ricordo benissimo la prima persona che abbracciai dopo quel duro isolamento: non potei chiedere di meglio per ricominciare.

    Nessuno mi può giudicare, nemmeno tu. Aggrappare le proprie scelte e, in certi casi, la propria esistenza sulla Terra ai giudizi degli altri è un rischio che si corre e in cui spesso ci ritroviamo inconsapevolmente. Io non sono da meno. Eppure, nel corso del tempo ho cercato il modo di fuggire da questa ragnatela, perché essere imbrigliato e non riuscire a muoversi come si vuole non è una sensazione appagante, neanche se ci si abitua.

    Potrei parlare di “coraggio delle proprie scelte”, ma provo a farla più semplice e meno retorica: vivere una vita che non è propriamente nostra al 100% non ci rende più affabili agli occhi del mondo e delle persone che ci circondano, neanche di coloro verso i cui giudizi mostriamo particolare attenzione. Le persone cambiano e con loro anche i giudizi che esprimono.
    Oggi, veniamo giudicati perché abbiamo fatto una cosa mentre, domani, potremo essere giudicati dallo stesso soggetto per non averla fatta. Dunque, perché sforzarsi di piacere agli altri, a tutti i costi, cercando un disperato ritorno di accettazione?
    Pochi giorni fa è venuta a mancare Michela Murgia. Tra le tante ricchezze che ci ha lasciato in eredità, mi ha sempre colpito quella sua capacità di essere stata sé stessa con le parole e con le azioni. In uno dei suoi ultimi interventi pubblici, durante l’ultima edizione del Salone del Libro di Torino, aveva affermato: “Io sto vivendo il tempo della mia vita adesso. Dico tutto, faccio tutto, tanto che mi fanno? Mi licenziano? […] Ma voi non aspettate di avere un cancro per fare così” (video).

     “Tanto cosa mi fanno?”. Il senso è tutto in questa domanda. Se ci ponessimo l’obiettivo di vivere la nostra vita come desideriamo davvero, sono certo che la risposta a quella domanda potrebbe essere, semplicemente, una: niente. Non possono farmi niente. E se qualcuno si allontanasse da me per aver fatto una scelta che sentivo davvero mia, vuol dire che aveva proiettato su di me aspettative completamente sconnesse con la mia persona, e generalmente frutto di superficialità nel conoscere chi si ha davanti o, peggio, di arroganza nel credere di poter condizionare le azioni dell’altro proprio attraverso l’idea che si ha di lui.
    Ma noi siamo più di quello che gli altri pensano di noi. Ecco perché se voglio comprarmi qualcosa, lo faccio perché a me va. Se voglio parlare di un argomento delicato, lo faccio perché a me va. Se voglio raccontare qualcosa che mi riguarda, lo faccio perché a me va. Se voglio farmi un orecchino, lo faccio perché a me va.
    Questo approccio che io applico su me stesso vorrei poterlo traslare, in chiave di reciprocità, verso i rapporti che io ho con gli altri. Certo è che non si tratta di un lavoro semplice, soprattutto perché bisogna essere almeno in due ad accettare questa visione delle cose. Non c’è dubbio, però, che sia meglio tentare e dire di aver fallito, piuttosto che teorizzare cose che restano solo dei desiderata o dei principi inapplicati.

    I “mai” sono scritti sulla sabbia. Faccio un mestiere – quello dell’avvocato – da quasi 6 anni. Un destino professionale che, durante l’università, giuravo a me stesso (e agli altri) di voler evitare. “Forse, come ultima spiaggia”, dicevo. Eppure, da ultima spiaggia è diventata la prima. Non mi ha costretto nessuno a farlo né, tantomeno, qualcuno mi costringe ora. L’insegnamento che traggo da come sono andate le cose, in questi anni, è che non bisogna partire con il pregiudizio che qualcosa non ci piaccia o con anatemi scagliati contro quelle che, tutto sommato, restano delle ipotesi plausibili. Se non abbiamo provato cosa significhi percepirsi in una certa dimensione, anche per un solo giorno, come possiamo darvi un giudizio così netto e a priori? Potessi tornare indietro nel tempo, direi al me universitario che i “mai” sono scritti sulla sabbia e che alla prima mareggiata tutto si cancella. E avrei aggiunto che quel mestiere lì poi, alla fine, avrà il suo fascino e che non sarà proprio come se lo immagina lui.

    Cosa mi riserverà il futuro è impossibile che io lo possa sapere (e anche basta a doverselo chiedere, che poi l’unica cosa che si ottiene è l’ansia che sale), ma mi riservo di dire che oltre al “mai”, non esiste neanche il “per sempre” e che l’idea di assumere tante forme, nella propria vita, ti permette di approcciarti alle cose attuali con un grado di serenità maggiore e con la forza di chi sa di star facendo il suo ruolo nella rappresentazione dei propri giorni e di quelli degli altri. Per quanto siamo e dobbiamo essere i protagonisti della nostra opera teatrale di cui sopra, ricordiamoci che siamo anche parti (secondarie, con buona pace degli egocentrici) di quelle degli altri.

    A chi, alla fine di questo post, si sia chiesto: sì, ma a questi 30 anni ci sei arrivato felice o lacerato nell’animo? Rispondo che sono uno scontento felice. Contento, deriva dal latino, contentus (participio passato di continere) e significa appagato, soddisfatto di ciò che si fa o si riceve. Ed io non sono soddisfatto di ciò che ho fatto e ho ricevuto fino ad ora, perché so di poter e dover ancora fare molto. Però sono felice (dal latino felix, non turbato da dolori), perché sono sereno e so di spingere l’accelleratore quando posso e di star crescendo, obtorto collo.

    Grazie. A chi è arrivato fin qui (ed è sopravvissuto a questo post). E a chi c’è stato fino ad ora e a chi ci sarà.

    Cheers!

  • Sono alla ricerca di una casa a Roma. Ma questo, se avete letto qualche mia storia precedente, lo sapevate già.

    Eppure, la sensazione che sto provando in questo periodo, nel vedere case, è un mix tra sconforto e disgusto.

    Non c’è il senso della misura e della decenza. Si fittano seminterrati (per dirla in termini più aulici: i suttuene) a prezzi folli, per non parlare di case fatiscenti che meriterebbero una manutanzione straordinaria senza precedenti solo per renderle dignitose per un essere umano.

    Ma non è tutto.

    Ho risposto a diversi annunci e parlato con diverse agenzie immobiliari.
    Dopo aver decantato le qualità dell’appartamento di turno (poi rivelatesi solo un mucchio di fesserie), mi viene posta la domanda: lei che lavoro fa?

    Ed io rispondo: sono un avvocato.

    Dall’altra parte della cornetta, la reazione è 8 volte su 10 sempre la stessa: ah!

    Ah!” cosa?

    “La fermo subito, il proprietario della casa vuole solo persone con contratto a tempo indeterminato, possibilmente pubblica amministrazione o forze armate”.

    Ah! (Questa volta a dirlo sono io).

    Ecco, dunque, la spada di Damocle che si abbatte sulla testa di una Partita IVA: non solo siamo già bistrattati di nostro, ex lege, ma siamo considerati poco affidabili a tal punto da non meritare neanche di vedere una casa. Neanche di passare sotto ai raggi X del locatore di turno.

    “Guardi che io lavoro in uno Studio legale associato da ormai 6 anni. Ha bisogno di una mia dichiarazione dei redditi?”.

    La risposta resta: “No, guardi. La fermo. Mi dispiace”.

    La verità è che dispiace più a me. Non per la casa che non potrò vedere, quanto per prendere sempre più consapevolezza che c’è un contratto sociale tra generazioni che si è ormai dissolto nel nulla.

    Non soltanto prezzi folli per dei buchi di c**o fatiscenti e con infissi del 1930, ma se non hai un contratto a tempo indeterminato, manco ti guardano in faccia.

    La Politica passa le ore di buco, tra una polemica e l’altra, ad interrogarsi sul perché la nostra generazione faccia fatica a farsi spazio o, peggio, sul perché ci siano ancora Over30 che vivono con mamma e papà.

    Non c’è solo un problema di caso affitti, ma anche di discriminazione professionale (e sociale).

    Mi reputo una persona fortunatissima: ho iniziato a lavorare solo dopo 3 settimane dalla laurea; sono economicamente autonomo da quando ho 24 anni. Non perché abbia vinto la lotteria, ma perché ho un lavoro e guadagno ciò che mi permette di non dover chiedere nulla a nessuno.

    Eppure…

    Eppure, anche per poter entrare nella casa dove sono ora ho dovuto far firmare a mio padre una fideiussione.
    “Sa, avvocato, è per stare sicuri. Null’altro. Lei capirà, dato che è del mestiere”.

    No. Non capisco.
    Non lo capisco, soprattutto dopo che mi hai chiesto pure che gruppo sanguigno sono e se sono un donatore di organi.
    Cos’altro devo dimostrare?

    E se uno i genitori non li ha? Cosa si fa? Si richiede una fideiussione bancaria? È un appartamento di 80 metri quadri o un centro commerciale, quello che sto chiedendo in affitto?

    Le generazioni precedenti alla mia si son mangiate tutto il mangiabile e ora chiedono a noi garanzie.

    E se vi state chiedendo perché io abbia deciso di scrivere tutto questo, vi rispondo: non è per sfodarmi. Non è perché non ho altro da fare.

    Per è per denunciare. Denuncio tutto questo scempio umano che si consuma addosso alla mia generazione.

    Racconto ciò che succede a me, perché sono certo che non sono il solo ad aver vissuto o a vivere questa situazione.

    Ne faccio una battaglia di principio.

    Ho iniziato a fare politica per fare battaglie di principio.
    Perché qualcuno deve pur farle.
    E perché bisogna smetterla di rassegnarsi al “tanto è così”.

    Ciao.

  • Io l’ho fatto il cameriere. Una stagione estiva di molti anni fa. Andavo ancora al liceo.

    Iniziavo il turno alle 18 in punto e terminavo alle 6 del mattino. Qualche volta anche più tardi.
    12 ore della mia giornata le passavo a lucidare bicchieri, portare piatti a tavola e poi, sul finire, lavare tutto il locale insieme ad altri ragazzi, mentre fuori il sole ritornava.Il tutto, per qualche banconota e la magra soddisfazione di aver guadagnato qualcosa per potermi pagare, senza chiedere aiuto a nessuno, una cena fuori o potermi togliere qualche sfizio.

    Ma al netto di quanto guadagnassi, ciò che rimane evidente è il tempo che quel mestiere sottrasse al mio unico periodo di libertà, lontano dagli impegni scolastici e dalla frenesia che riprendeva ogni inizio settembre. Eppure l’ho fatto per mia scelta, perché è così che dovevano andare le cose quella volta.

    Provo grande stima verso chi fa questo lavoro ma io, oggi, non l’avrei più fatto.

    E non perché ci si attacca al denaro o si è “choosy”, come qualcuno ci apostrofò qualche tempo fa, ma perché è vero quel che dice, suo malgrado, lo chef La Mantia: il covid ha cambiato le priorità delle giovani generazioni.

    Ed è giusto così.

    Il Covid ha messo in evidenza come il tempo passato a fare le cose che ci rendono felici e ci gratificano sia preziosissimo. Per tale ragione, il lavoro non deve esserci a prescindere ma deve essere di qualità e deve avere rispetto della vita del lavoratore.

    Un lavoro alienante, che assorbe tutte le energie e il tempo del lavoratore, non è vero lavoro. È un supplizio e 1400€ di paga non valgono quanto il desiderio di essere davvero felici.

    La concezione del lavoro e del tempo è cambiato, perché è cambiato il mondo. E chi non se ne rende conto è destinato a scontrarsi con la realtà e, presto o tardi, le sue convinzioni andranno in frantumi. Come una macchina durante un crash test.

    A tutti i tycoon, gli imprenditori e gli chef che riempiono pagine di siti e giornali con le loro dichiarazioni contrariate, una chiave di lettura e un consiglio: le condizioni esterne non sono modellabili a piacimento di chi le subisce, ma sono frutto di un cambiamento collettivo, spinto da fenomeni sociali anche di grande portata. La pandemia è tra questi.
    O il modo di fare impresa cambia e si adatta alle nuove esigenze, oppure sarà presto soppiantato da un nuovo paradigma sociale che terrà fuori tutti coloro che sono stati ciechi e cinici davanti all’evidenza.

  • Quello che gli altri non vedono (o fanno finta di non vedere)

    Simone Biles, campionessa olimpica statunitense, la più forte ginnasta (in attività) al mondo, ha deciso di non partecipare ad alcune delle attese gare olimpiche in programma a Tokyo 2020.

    Ha ritenuto giusto ritirarsi, perché aveva bisogno di fare quadrato su sé stessa, potersi prendere cura della propria salute mentale. Un gesto che ha lasciato di sasso moltissimi. “Salute mentale?” sarà stata la domanda che ha riecheggiato nelle menti dei più. “Ma come, salute mentale? In che senso?”. Ecco, “in che senso”?

    Spesso gli atleti sono presi come esempio di tenacia, equilibrio e impegno nel raggiungere i propri obiettivi fisici e, dunque, sportivi. Eppure, nessuno, almeno fino ad ora, si è posto il problema di cosa ci sia dietro il fisico scolpito e quella tenacia che contraddistingue i vincenti. Qualcosa che nessuno può vedere, eccetto l’atleta stesso: l’orgoglio ferito, l’ansia, lo stress, il desiderio di ritrovarsi in un altro posto, di voler tornare indietro per fare scelte diverse. Qualsiasi cosa che vi venga in mente e che meriti tutte le attenzioni del mondo, perché la salute mentale è fondamentale quanto e forse più di quella fisica.
    Perché con una gamba o un braccio fuori uso, con impegno e voglia di riscatto, puoi riuscire a vivere serenamente e senza alcun ostacolo alla tua realizzazione. Ciò non può dirsi quando c’è qualcosa che non vada nella nostra testa: i limiti mentali sono difficili da superare con la sola volontà. Serve impegno e delicatezza, voglia di aprirsi agli altri e la fortuna di avere accanto persone in grado di ascoltarci e aiutarci.

    Più di quanto possa ritenersi per quella fisica, la nostra salute mentale ha un estremo bisogno dell’altro. Non è una battaglia che possiamo vincere da soli, in un epico 1 contro 1. Abbiamo bisogno di qualcuno che ci prenda per mano e ci faccia sentire amati, accettati e compresi. Ecco perché la scelta di Biles è una scelta coraggiosa: perché, nella nostra società moderna, il tema della salute mentale è relegato agli ultimi posti, privato di qualsiasi rilevanza dinanzi agli sviluppi quotidiani della nostra vita. Eppure, è la cosa più rilevante tra tutte.

    La stigmatizzazione è dietro l’angolo, la tendenza a chiudere nel guscio duro del tabù la salute mentale è elevatissima. Sono moltissime le persone incapaci di comprendere davvero quale sia il problema, eppure da qualche parte dobbiamo cominciare.

    Titolo apparso su un quotidiano nazionale italiano

    Qualche giornale italiano ha ritenuto corretto apostrofare il tutto con “Ho a che fare con i demoni”. Seppur ritengo questa trascrizione come un mal riuscito tentativo di tradurre in italiano le dichiarazioni di Biles (“demons” in inglese può significare anche “cattivi pensieri“), è probabile che non ci sia posti neanche il problema se tale traduzione fosse consona oppure no. In effetti, nei romanzi come nelle nostre narrazioni quotidiane, chi ha un problema mentale è un “pazzo”, uno “squilibrato”, un “folle”, uno da cui stare alla larga. Appunto, un “demone”.

    Titolo del Times

    La Biles, dunque, ha aperto uno squarcio su una fitta tenda di ipocrisia. Un gesto che trova la sua ispirazione anche in Naomi Osaka e nel suo ritiro dal Roland Garros, come ha avuto modo di ribadire la stessa ginnasta americana, in conferenza stampa.

    Di salute mentale se ne deve parlare e bisogna affrontare il tema con assoluta maturità e lucidità, provando a dare risposte e soluzioni concrete, sostenendo chi ne ha bisogno e, soprattutto, chi non sa ancora di averne.

    Per questo, a Simone Biles bisogna dire grazie. Grazie per aver avuto il coraggio di trattare un tema così delicato quanto importante.


    Chi segue il blog o il sottoscritto da diverso tempo sa che del tema della salute mentale ne parlo da diverso tempo. Da ultimo, era stato oggetto della prima puntata del mio podcast, Ithaka. La trovate sulle principali piattaforme di streaming.

  • Non bisogna allentare la presa sui vaccini.

    Questo piano B del Viminale, di cui conosciamo gli stralci, per il quale il green pass obbligatorio verrebbe sostituito dalle sanzioni amministrative dissuasive verso i NoVax, non mi convince.

    Ci saranno davvero i controlli? Si faranno sanzioni a ogni singolo non vaccinato che non rispetti le norme?

    Io avrei adottato la linea dura: green pass obbligatorio per entrare in qualsiasi luogo aperto al pubblico e nei luoghi di lavoro, con sanzioni a chi non rispetta le regole.

    Non vuoi vaccinarti? No problem. Però non vai a lavorare, non vai in palestra, al supermercato (ci mandi un vaccinato), dal parrucchiere e in nessun’altra parte.

  • Foto di me con il cerotto non ne ho. Avrei voluto tanto scattare una foto a chi mi ha somministrato il vaccino, per immortalare il volto di chi mi ha permesso di uscire dall’incubo del COVID. Non l’ho fatto, ovviamente, per motivi che potete immaginare.
    Ma voglio ringraziare di cuore il personale dello Spallanzani: di una professionalità e gentilezza che avevo dimenticato esistessero.

    La prima dose è stata un’emozione forte.
    Lo è stata ancora di più, per me, perché l’ho ricevuta nel luogo dove l’incubo ebbe inizio – con il ricovero dei primi due pazienti a fine 2019 – e dove iniziò la sua fine – grazie al grande lavoro delle ricercatrici e ricercatori.

    Grazie ai medici e infermieri dello Spallanzani e grazie alla Regione Lazio per l’impeccabile organizzazione.

    Alla seconda dose! ?

  • Se avete un amico o un’amica o un fidanzato o una fidanzata che ha perso il suo tipico smalto, il suo sorriso e la felicità dopo la quarantena, stategli accanto.
    Ascoltateli, abbracciateli e, se potete, aiutateli. Guardateli negli occhi mentre lo fate, potreste stupirvi di quello che vedrete. Potreste riuscire a strappare loro un sorriso, o vederli piangere a dirotto. In ogni caso, è l’ombra che comincia a svanire.

    Non c’è condizione più favorevole per sprofondare nell’abisso di quella in cui ci si ritrova da soli, circondati da incomprensione e da persone che anziché essere più vicine si allontano, magari con rabbia e frustrazione.

    Ricordiamoci che ci si rialza da soli, sempre.
    Ma se hai qualcuno che fa il tifo per te e ti sostiene, anche con una semplice parola, quello sforzo non sarà poi così faticoso, perché lo farai non solo per te, ma anche per gli altri.

  • Gli aghi del cedro erano in stato di agitazione. Con movimenti irregolari riempivano, fischiando, il silenzio che avvolgeva quel pomeriggio di vento freddo. La sigaretta era accesa. A fumare erano in due. Luca e il vento, che quella sigaretta consumava più veloce di quanto avesse voluto. Aveva bisogno solo di una sigaretta, ma non era cosa.
    Camminava in ciabatte per il corridoio della veranda, cercando un raggio di sole che, testardo, aveva deciso di terminare la sua corsa sul muro di casa, fregandosene delle nuvole e degli alberi. Sotto i suoi piedi, un metro di vuoto lo separava dal vialetto e una lucertola era immobile su un pezzo di legno. Anche lei cercava un raggio di sole. Per un attimo i loro occhi si incrociano, come due che, intenti nel fare la stessa cosa, si lanciano uno sguardo di intesa. Ma quale intesa! Che ne sapeva la lucertola di quello che gli passava per la testa! Se fuori c’era vento, sotto i suoi capelli corvini era in atto una burrasca.

    Quel giorno era il primo giorno di estate, eppure di quella stagione, dall’odore di leggerezza e spensieratezza, non vi era traccia.

    Continuava a passeggiare, Luca. In una mano la sigaretta, nell’altra se stesso, come se stesse tenendosi per mano. Non era felice, per niente. Sentiva tra le labbra quel gusto amaro che tanto avrebbe desiderato dimenticare. Invece era lì, a pervadere in modo arrogante tutti e cinque i sensi.

    Luca era un giovane ingegnere che per lavoro aveva lasciato la propria gente, la propria terra, per stabilirsi in una città a centinaia di chilometri da quella veranda, da quel cedro e da quella lucertola. Pochi mesi prima, aveva trascorso molto tempo da solo, in quella città, in una casa buia e piccola, senza nessuno se non se stesso e il suo riflesso allo specchio. Era come se una mano gigante avesse deciso di prenderlo per il colletto della camicia e lanciarlo in una di quelle case per topi, con l’obiettivo di studiarne i comportamenti per farne un esperimento.

    Luca era un ragazzo che non si fermava mai e, con il tempo, aveva imparato ad abbattere barriere che gli impedivano di fare quello che in cuor suo sapeva di volere e di poter fare: lavorare, spostarsi in bicicletta, riprendere la vecchia passione per il giornale, conoscere nuove persone, addirittura iscriversi in palestra. Poi il tasto freeze. E mentre tutto intorno a lui si fermava, senza saperlo, dentro quel ragazzo cominciarono a crearsi microlesioni che presto si sarebbero trasformate in crepe e, in alcuni casi, in calcinacci che rovinosamente si scaraventarono sul pavimento della quotidianità, di lì a poco.

    Terminata quella brutta esperienza, prese il primo aereo per tornare dalla sua famiglia, cercando di riconquistare a piccoli passi la quotidianità di sempre. Ma ciò che prima era un granello di sabbia, come colpito da un incantesimo, si era trasformato in un enorme macigno. Tutto sembrava difficile, complicato, tutto. Anche sorridere.

    La sigaretta, intanto, era arrivata a bruciare il filtro che supplicava di essere lanciato sul selciato, per terminare la sua vita tra l’erba selvatica e il calore della pietra cotta al sole di mezzogiorno. Fu accontentato, bastava poco. Magari fosse stato altrettanto sufficiente per ritrovarsi e rinsavire, allontanandosi da quello stato emotivo che lo teneva ancorato ai mattoni della veranda. Alzò lo sguardo al cielo e vide che le nuvole, spinte dal vento, avevano cominciato a correre come centometristi. Tutto, sopra la propria testa, correva. Tutto, intorno a lui, si muoveva.

    Ad un tratto, le nuvole coprirono il sole e una voce raggiunse le orecchie di Luca.

    «Ben ritrovato!»
    Si voltò ma non c’era nessuno.
    «Non puoi vedermi. Ci sono ma nella mia parte fondamentale: la mia voce»
    «Cosa vuoi?»
    «Mah…niente di particolare, ti osservavo da un po’ e volevo salutarti. Era da un po’ che non ci si vedeva eh?! Ma sei dimagrito?»
    «Sì, 4 chili»
    «Si vede»
    «Eh…»
    «Vabbè, non dirmi niente. So cosa sta succedendo nella tua testa. C’è da coprirsi per bene, c’è una burrasca niente male, tipo da film!»
    «…»
    «Okay okay, faccio il serio. Comunque, oltre a salutarti volevo anche dirti una cosa»
    «Dimmi»
    «Non prendertela con te stesso per quello che stai vivendo. Ricorda che per quanto ognuno di noi possa augurarsi di essere solo uno spettatore delle difficoltà umane, queste sono più vicine di quanto si possa credere»
    «Sì, ma perché ancora a me? E perché ancora adesso?»
    «Tesoro mio, mentre eri intento a cucinare e stirare camicie – che poi, a cosa servisse stirarle se non andavi in ufficio me lo chiedo ancora oggi, ma vabbè! – io dovevo tenere con lo scotch tutto quello che eravamo riusciti a recuperare nei mesi e forse anni prima. Credi che ci sia riuscito alla perfezione? No! Sono pur sempre da solo, non ho nessuno che mi abbia dato una mano. Solo tu e solo io»
    «Brutto lavoro, eh?»
    «Ma no! Brutto no e neanche semplice, ma di certo importante e soddisfacente»
    «Ma come soddisfacente?»
    «Ma certo! Ecco, quando tu sei a pezzi o non sei felice è perché qualcosa dentro di te è fuori posto. Ma dopo aver rimesso ordine, è proprio nel rivederti tornare quello di prima che trovo la mia soddisfazione più grande»
    «E quando pensi di prendertela questa soddisfazione di nuovo?»
    «Ci sto lavorando ma tu non mi rendere le cose difficili»
    «Cioè? Cosa sto facendo?»
    «Beh, prima di tutto smettila di guardarti i piedi in quelle orrende ciabatte, indossa un paio di scarpe e comincia a ritrovare i tuoi spazi e le tue persone»
    «Eh…le mie persone…»
    «Sì, le tue persone, Luca. Le tue persone. E per “tue persone” intendo tutte, nessuna esclusa! Anche quelle che ti guardano non capendo se il vero Luca fosse quello di prima o quello di adesso»
    «Non tocchiamo questo tasto, per piacere!»
    «Ma tocchiamolo eccome, invece! Lo vuoi capire che tu – come nessuno – non sei bianco o nero o grigio o giallo o verde o arancione?»
    «Ma che stai dicendo?!»
    «Dico che non possiamo pretendere di essere semplici con gli altri perché non lo siamo con noi stessi. Noi siamo complessi perché complesse sono le emozioni che viviamo e i problemi che ognuno di noi può vivere sono generati dal contrasto che quella complessità autoalimenta»
    «Ti sei messo a fare il filosofo ora?»
    «Lasciami finire, cretino! È inutile che ti chiudi come un riccio, lo so che stai provando in questo momento: rabbia, delusione e quella sensazione di macigno sullo stomaco che ti porta a non respirare. E so a cosa è dovuto e sono qui per aiutarti, come ho sempre fatto»
    «Scusami, non volevo sminuire quello che stavi dicendo»
    «Amen. Nessun problema. Ora però concentrati sul mio messaggio: di cosa hai paura? Hai paura di perderti o di perdere qualcuno?»
    «Beh…ecco…»
    «Vedi?! Stai provando a scegliere se essere bianco o nero! Ma sarebbe solo una effimera illusione pronta a sciogliersi come neve al sole alla prossima occasione. Tu sei entrambi, e anche molto altro! Lo vuoi capire, zucca vuota?!»
    «Esserlo però non equivale a dimostrarlo, né tantomeno a saperlo spiegare»
    «Perché spiegarlo? Come fai a spiegare qualcosa che non sai neanche tu come definirlo? Anche questa fantomatica definizione risulterebbe solo una parziale rappresentazione di te stesso che si scontrerebbe con il prossimo te davanti ad un episodio della tua vita»
    «Devo stare in silenzio, quindi? Ma come faccio a spiegarlo a chi ci tengo?»
    «Se qualcuno ti ha conosciuto mentre eri “bianco”, per poi ritrovarti “nero”, dalle solo tempo di capire che non hai cambiato colore, ma che sei solo colpito da una luce diversa. E con ciò voglio dire che a seconda di ciò che viviamo e sentiamo, quel colore cambia, trasformandoti in un connubio di colori»
    «Il tempo…ma secondo te posso dire “dammi tempo”?»
    «E perché no? Scusa, ma stiamo parlando di un esame universitario o qui stiamo discutendo della tua vita e delle tue relazioni umane? Se non ci prendiamo del tempo per le cose che valgono davvero, per cos’altro potremmo prendercelo?»
    «Belle parole, davvero. Ma credo che resteranno tali»
    «Le belle parole sono parte essenziale del nostro vivere. I grandi discorsi hanno scosso gli animi degli uomini più delle azioni. Certo, dalle parole poi bisogna passare ai fatti, ma su questo non vedo grossi problemi all’orizzonte»
    «Vabbè, ma quindi che devo fare?»
    «Ah beh…facile così! Vuoi il libretto delle istruzioni? Ahahaha»
    «Non ridere, non sto scherzando. Non so cosa fare…»
    «Ma sì che lo sai, o meglio: non sai ancora di saperlo. Anche per questo serve tempo»
    «Tempo di qua, tempo di la. Insomma, tutto questo tempo e arriviamo a 90 anni…»
    «Sì…100 e 150! Ma piantala! Guarda: mi pare di aver fatto un discorso eterno con te e sono passati solo 5 minuti. Non è il tempo scandito dall’orologio a cui devi guardare, ma a quello che ticchetta dentro di te.»
    «Quindi, per ricapitolare: devo piantarla di restare fermo, devo ripartire ed essere quello che sono, non avendo paura di dimostrarlo»
    «Esatto»
    «…con tutte le imperfezioni che possiedo…»
    «Esatto»
    «…e le persone dovranno solo accettare di prendersi del tempo per conoscere le mie sfumature e apprezzarle o meno»
    «E-sat-to!»
    «Vabbè, stiamo scadendo nel ridicolo, secondo me. Basta, rientro. Comincio a sentire un po’ freddo»
    «Rientra pure. Ma mentre continui a darti del ridicolo e a sminuire la tua sensibilità, ricorda solo che se cerchi qualcosa non la troverai mai. Le più grandi scoperte sono arrivate per caso. Non condannarti per niente e nessuno. Oggi il mare è in tempesta, ma siamo lontani dalla riva ancora 27 miglia, non si vede che l’orizzonte a prua. Stammi bene»
    «Grazie per le parole, ma non credo di aver capito il tuo ultimo messaggio»
    «Anche per questo serv…»
    «Serve tempo…ho capito. Però adesso, scusami, ma ho capito che sei dentro la mia testa, ma chi sei?»

    Ma non c’era più nessuno. Solo la lucertola.