Categoria: Politica


  • Facebook e Twitter, le cyberdroghe

    Facebook e Twitter, le cyberdroghe

    Facebook e Twitter hanno travolto la nostra vita, cambiando totalmente il nostro modo di intendere le relazioni. I social network ci hanno cambiato la vita in meglio o in peggio? Questa vignetta di Marc Maron la dice lunga. Ed ha ragione.


  • Dopo la crisi, gli Stati Uniti d’Europa

    Dopo la crisi, gli Stati Uniti d’Europa

    Dalle difficoltà attuali emergerà una nuova Europa in cui il ruolo degli stati nazione sarà ridimensionato a favore di un rapporto più diretto con i cittadini. La seconda parte dell’intervento di Geert Mak alla conferenza organizzata da Trouw. Estratti.

    L’11 marzo 1882, più di 130 anni fa, il filosofo e polemista francese Ernest Renan pronunciò un discorso alla Sorbona destinato ad avere un impatto molto duraturo. Si intitolava “Cos’è una nazione?”. “Una nazione è […] una grande solidarietà, costituita dal sentimento dei sacrifici compiuti e da quelli che si è ancora disposti a compiere insieme”.

    Ancora oggi esistono filosofi e politici europei, specialmente a Bruxelles, che preferirebbero spazzare via lo stato nazione, un mito antiquato e perfino pericoloso del XIX secolo. Costoro considerano la crisi un mezzo per compiere, finalmente, un grande balzo in avanti; sognano ancora una federazione europea.

    Se si applica la lucida definizione di Renan al nostro continente, tuttavia, allora – anche a distanza di mezzo secolo da quando si sono gettate le fondamenta dell’Ue – non resta granché di una simile nazione europea. Se c’è qualcosa che la crisi e la conseguente spinta estrema all’austerità hanno rovinato è proprio quella solidarietà, quella volontà di continuare a vivere insieme una stessa vita, come faceva notare Renan.

    Non è tutto. Il problema di quei grandiosi sogni europei è che nel respingere lo stato nazione, l’importanza del fattore “luogo” non è stata tenuta in debito conto, in linea generale. I formaggi non pastorizzati semi-illegali dei mercati di Dieppe, il caffè fumoso e privo di servizi igienici del paese di Vasarosbec in Ungheria, il cioccolato di Bruges, i pannelli solari di Neukirch, la costruzione della metropolitana di Amsterdam… Che cosa non è stato soffocato dalla grandinata di normative dalle buone intenzioni di Bruxelles?

    Tutti questi, presi singolarmente e insieme, sono sintomi di una federazione europea che negli ultimi decenni ha completamente perso il suo equilibrio. Fin troppe questioni che un normale rapporto federativo, come quello degli Stati Uniti d’America, lascia alla competenza di singoli stati membri – dal formaggio al cioccolato, per esempio – sono amministrati direttamente da Bruxelles.

    D’altra parte, in Europa troppi ambiti politici che in tutte le federazioni sono più o meno gestiti a livello centrale – il settore finanziario, per esempio, e naturalmente la politica estera e la difesa – continuano invece a essere amministrati dalle capitali nazionali. I cittadini europei ne hanno un’acuta consapevolezza. Se c’è qualcosa che mette davvero a repentaglio il supporto all’Unione europea, a parte la mancanza di democrazia, è sicuramente questo.

    Dovremmo riportare in vita lo stato nazione in tutto il suo splendore, come sostengono alcuni? In tal caso, in assenza dell’Ue ma in qualità di europei dovremmo forse occuparci insieme di migliaia di questioni disparate, dalle quote per la pesca agli accordi finanziari alla politica energetica? Per non parlare della questione del clima, che nel XXI secolo si è abbattuta su tutti noi. Il mondo stesso non si è espanso ben al di là dei confini nazionali?

    Che ci piaccia o meno, dobbiamo trovare forme adeguate e democraticamente controllate per questo onnipresente “spazio” europeo. Sarà difficile e problematico, ma non c’è modo di tornare indietro al 1956.

    Dove lo stato nazione potrebbe acquisire un nuovo spazio è nella democrazia europea. Pertanto, è legittimo auspicare l’istituzione di un senato europeo che, come avviene negli Usa, rafforzi la componente nazionale nell’ambito del parlamento europeo e della democrazia europea. Altrettanto importante è la trasformazione dell’ideale nazionale risalente al XIX secolo di “sangue, lingua e territorio” in un ideale più politico, come hanno gli americani. Ormai, questo processo è in corso anche in Europa.

    Questa crisi sarà seguita da un Rinascimento europeo, in un modo o nell’altro. Da questa Unione europea dolorosamente messa alla prova, dovremo ricreare uno spazio europeo nel quale ogni cittadino europeo si senta a casa propria. Meno motivato da sogni e idealismo, temo, e più dalla dura necessità. Non trionfale, ma realistico e modesto. In primis e in assoluto tenendo in maggiore considerazione i valori associati al concetto di “spazio” presenti nelle normative europee e nelle istituzioni. Rispettando, coltivando e quando possibile proteggendo tutto ciò che si associa a quei valori contro la già eccessiva aggressione europea e globale.

    Economie parallele

    Quello spazio deve essere creato anche nel dibattito politico, non liquidando semplicemente tutti coloro che non si sentono più a casa propria nel loro angolo di mondo come i populisti e i nazionalisti. Questi sono sentimenti che l’estrema destra sa sfruttare da sempre. Ma ciò dipende dal fatto che i movimenti progressisti e liberal-conservatori hanno regolarmente prestato troppo poca attenzione alla necessità umana di una casa, di un proprio spazio e di tutto quello che a ciò si associa.

    In secondo luogo, quell’equilibrio può essere ritrovato e ripristinato dedicando più attenzione a quali elementi possono dare un contributo all’Europa. Ovunque, ma soprattutto a sud, stiamo vedendo in che modo, spinte dalla necessità, spuntino ovunque economie parallele, che si basano su un sapere locale, su prodotti locali, su network locali– il che significa, senza alcun commercio e distribuzione – su estensioni locali del credito, su una fiducia locale.

    E infine, l’equilibrio si ripristinerà con l’espansione del concetto di “spazio” che è andato prendendo piede in particolare negli ultimi decenni. Sempre più spesso si vede come tale concetto travalichi gli ambiti nazionali. Talvolta è la regione – che spesso oltrepassa varie frontiere – tal altra è un paesino, sempre più spesso una città.

    Al momento, per esempio, sono per lo più le città i luoghi dove creatività e innovazione fioriscono e si sviluppano malgrado tutto il pessimismo, dove i migranti vanno e vengono, dove i municipi abbattono le barriere nazionali e si avvicinano gli uni agli altri in tutto il mondo. Fin da prima della crisi siamo entrati nel vortice di un processo lungo e difficile. Tra tentativi ed errori ci stiamo dirigendo poco alla volta verso un’Europa fatta di persone, invece che un’Europa fatta di stati.

    fonte: PressEurope.eu


  • Scena straziante da Lampedusa

    Scena straziante da Lampedusa

    Sono 111 le bare che attendono di essere sepolte. L’hangar, dove prima erano depositati i corpi esanimi delle vittime della tragedia che ha colpito un barcone di immigrati in cerca di speranza nel nostro Paese, si è trasformato in una grande camera ardente. Toccante vedere le quattro piccole bare bianche.


  • Nobel per la Pace a Lampedusa

    Nobel per la Pace a Lampedusa

    Checché ne dica l’Europa, l’Italia è l’unico vero fronte per la salvezza della disperazione dei popoli dell’altra parte del Mediterraneo. Lo abbiamo visto con la tragedia delle scorse ore, lo abbiamo visto con moltissime altre situazioni difficili degli scorsi mesi, anni e lo vedremo nei prossimi mesi, anni, forse anche settimane o addirittura giorni.

    Lampedusa è il molo d’Europa e vive sulla propria pelle più di tutti, forse in modo esclusivo ed unico, la tragedia dell’immigrazione e per questo è stato lanciato l’appello per consegnare all’isola il Nobel per la Pace. Con le seguenti motivazioni.

    1. Lampedusa è oggi la più importante porta d’ingresso all’Europa. Dall’altra sponda del Mediterraneo – spinti dalla fame, dal dolore, dalle persecuzioni razziali tribali o religiose – partono centinaia di uomini donne e bambini che per tentare di conquistarsi il diritto a vivere mettono nel conto perfino la possibilità di morire. Lì, su quell’isola, si svolge ogni giorno una nobilissima battaglia in nome e per conto del mondo intero.

    2. A combatterla è una piccola comunità – 6300 abitanti – che mette da parte la sua vita privata e dimentica i suoi interessi legati a una stagione turistica che dura poche settimane all’anno, per impegnarsi in una straordinaria gara di solidarietà. Uomini donne e bambini che fermano lo scorrere della loro vita normale per aiutare e ospitare i sopravvissuti a drammatici viaggi della speranza. Un popolo che non ha mai smesso di essere umano.

    3. Premiare un’isola e i suoi abitanti con un riconoscimento internazionale altamente significativo servirebbe anche a svegliare l’Unione Europea dal suo torpore, da un silenzio talvolta fatto di egoismo e indifferenza, e spingerla a occuparsi del dramma di intere popolazioni di migranti che non può essere affidato alla generosità e all’altruismo di un solo paese o addirittura di un piccolo scoglio in mezzo al mare.

    4. Premiare Lampedusa sarebbe come gridare “alt” allo scandaloso traffico di carne umana sul quale lucrano all’origine mediatori, scafisti e perfino piccoli ras locali e che costituisce per molti governi del Mediterraneo il sistema più semplice per fingere di risolvere, o almeno di allentare e rinviare nel tempo, drammatici problemi di fame e miseria.

    5. Premiare Lampedusa significherebbe infine offrire una piccola ma intensa luce di speranza a chi è costretto ad abbandonare la sua terra e a cercare a casa altrui ciò che non avrà mai a casa propria. Vorrebbe dire che qualcuno nel mondo sta pensando anche a loro, ai dannati della terra, ai morti del mare.


    nobel(1)

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  • Un Miliband Segretario del PD

    Un Miliband Segretario del PD

    Virata a sinistra per i Labour. Da Brighton un messaggio importante alla sinistra europea. Miliband ha gettato nel cestino il New Labour di Tony Blair e ha costruito il One Nation Labour, con una visione politica non più tendente al centro, ma che vuole galvanizzare l’elettorato di sinistra. E in Italia?

    In Gran Bretagna sta succedendo qualcosa di importante, di significativo, che chiunque si candida a guidare il principale partito di centrosinistra, in Italia, deve tenere bene in mente: i Labour hanno virato a sinistra, dopo la parentesi del New Labour di Tony Blair che ammiccava al centro.

    Al timone del nuovo Partito Laburista inglese, dal 25 settembre 2010, c’è Ed Miliband, figlio di un ebreo di origine polacca, socialista, che ha sconfitto il fratello David alla corsa per la leadership del partito.

    Nel corso della Labour Conference 2013, tenutosi a Brighton lo scorso 24 settembre, il leader dei laburisti ha sterzato, con forza, verso sinistra, proponendo un programma elettorale, in vista della competizione per Downing Street del 2015, pressapoco composto da:

    1. congelamento per due anni delle bollette energetiche con un risparmio medio annuale per le famiglie di 300/400 sterline (ma per le imprese addirittura superiore);
    2. battaglia alle sei grandi company del settore energetico (responsabili, per i laburisti, del salasso) che si accolleranno il costo dell’operazione, 4 miliardi di sterline (e sono già sul piede di guerra);
    3. riduzione delle tasse per 1 milione e 800 mila piccoli commercianti, nessuna riduzione invece per le società di capitale e per le multinazionali;
    4. costruzione di 100 mila nuove case (con criteri rispettosi dell’ambiente) e confisca delle terre. I grandi proprietari saranno posti davanti alla scelta: o utilizzi i tuoi possedimenti o le amministrazioni locali potranno espropriare per fini sociali;
    5. taglio della spesa pubblica improduttiva ma più soldi alla sanità pubblica e alla educazione;
    6. diritto di voto ai sedicenni.

    Il New Labour, quindi, è finito. Ora, il One Nation Labour ha deciso che strada intraprendere nella politica inglese ed è forse un campanello d’allarme per tutti i partiti di centrosinistra europei, soprattutto italiani (soprattutto uno, molto impegnato per le diatribe interne tra ex-DC ed ex-PCI, ancora).

    Ma il progetto blairiano, in Italia, non è rimasto, solo, negli annali di storia, perchè qualcuno ne ha rispolverato gli intenti e gli obiettivi, qualcuno che ha deciso di candidarsi alla carica di Segretario nazionale del Partito Democratico con l’obiettivo di spostare il partito più al centro (più di quanto già lo sia, del resto, è tutto dire). Parlo di Renzi, ovviamente, e mi chiedo se Ed Miliband sia un passo avanti rispetto al Sindaco di Firenze, oppure, inevitabilmente, i destini di due partiti “apparentemente apparentati” sono diversi, completamente slegati l’un l’altro. Di risposte ne ho tante, ma confuse, come se mi sembrasse scontato il fatto che un partito di centrosinistra debba preferire curare e rafforzare il suo consenso nella parte più a sinistra dell’elettorato, prima di occuparsi dei “delusi”.

    Certo, apriti cielo: “ma se non intercettiamo gli scontenti del PdL, da dove li prendiamo noi i voti per vincere?”. Domanda posta e riproposta nell’esatto momento in cui qualcuno obietta, ma si lascia scoperto un tasto dolentissimo, difficile da nascondere ma malamente ignorato: con lo spostamento al centro del partito, perderemmo tutta la parte a sinistra dell’elettorato, gettandolo nello scompiglio di una continua proliferazione partitica (per ultimo il nuovo progetto politico di Landini, Rodotà e Zagrebelsky).

    Da Brighton arriva un messaggio chiaro: in tempi come questi, non si possono perdere i valori della sinistra, una sinistra che guarda agli ultimi, ai disoccupati, al sociale, con forza, decisione, determinazione. Ma quindi? Quale sarà il messaggio intercettato dal Partito Democratico? Sarà un New PD o un One Nation PD?
    Dipende da chi vince, ma dipende dalla nostra capacità di collocarci politicamente, regalando, finalmente, al PD, una chiarezza nelle idee e nella prospettiva da presentare al Paese. È poco? Io non credo.


  • Sul record di disoccupazione giovanile

    Sul record di disoccupazione giovanile

    Siamo al record storico (scontato, a mio avviso): la disoccupazione giovanile ha raggiunto il 40,1%, il livello più alto dall’inizio sia delle serie mensili (2004) sia trimestrali (1977).

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    fonte: ISTAT

    A dimostrarlo è l’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT) nelle tabelle della sua ultima ricerca, con base Agosto 2013, dove La disoccupazione ad agosto sale al 12,2%, in rialzo di 0,1 punti percentuali su luglio e di 1,5 punti su base annua.

    Tra i 15 e i 24 anni le persone in cerca di lavoro, ovvero disoccupate, sono 667 mila, pari all’11,1% dei ragazzi nella stessa fascia d’età. E’ quanto emerge dai dati Istat per il mese di agosto (stime provvisorie e destagionalizzate).

    Il numero di disoccupati ad agosto torna a crescere, dopo due mesi di stop, raggiungendo quota 3 milioni 127 mila, in aumento dell’1,4% rispetto al mese precedente (+42 mila) e del 14,5% su base annua (+395 mila).

    Quasi un ragazzo su due non ha lavoro e questo è il risultato di una guerra che, ancora oggi, non ha deciso di cessare e che potrebbe regalare nuove e ulteriori vittime da aggiungere alla quota di cui sopra.

    Mai, come ora, le istituzioni dovrebbero incentivare l’impresa giovanile e l’occupazione di ragazzi tra under25. Un segno di rafforzamento dello stato sociale della popolazione e soprattutto di scelte politiche decise a voltare pagina.

    Sino a quando la disoccupazione aumenterà e dividerà le giovani generazioni a metà tra occupati e disoccupati – considerando, per altro, che gli indici statistici sono basati sugli elenchi di ragazzi under25 iscritti agli uffici di collocamento, quindi senza considerare tutti coloro che o stanno studiando, o non sono ancora iscritti agli uffici di collocamento – l’Italia non avrà mai una ripresa solida e la politica non potrà tirarsi fuori dalle sue responsabilità.

    Le startup sono la nuova frontiera dell’occupazione e l’ingegno e l’impegno, di moltissimi giovani, sta dando la dimostrazione della possibilità di riscatto di una generazione che non ha prospettive certe per il futuro, come i loro genitori. Ma smettiamola di dire che le giovani generazioni non hanno una prospettiva, a prescindere. Credo che le giovani generazioni siano incaricate dalla Storia di rimettere in piedi (da zero) un “Sistema Paese” in frantumi, in cocci, e di sparigliare qualsiasi tipo agente patogeno che farebbe ricadere l’Italia in un vuoto politico-sociale.

    In tutto questo, proprio oggi, come se non bastasse, è aumentata l’IVA e la benzina. Aumenta il costo della vita, diminuisce il valore della vita, che senza lavoro perde di dignità.


  • Domani aumenta l’IVA (e la benzina)

    Domani aumenta l’IVA (e la benzina)

    La tassa passa dal 21 al 22%, ma per i consumatori l’effetto sui carburanti sarà inferiore rispetto al ventilato aumento delle accise che avrebbe generato rincari di 2,5 cent. Intanto i prezzi medi praticati sono in calo

    Ultime 24 ore prima del nuovo rincaro dei carburanti. Per effetto del mancato slittamento dell’aumento dal 21 al 22% dell’aliquota ordinaria dell’Iva, infatti, il prezzo raccomandato della benzina salirà di circa 1,5 centesimi di euro/litro, quello del diesel di 1,4 ed il gpl di 0,7 centesimi. Anche se l’impatto sui prezzi praticati non dovrebbe essere immediato ma spalmarsi lungo la settimana in funzione della fisiologica rotazione delle scorte.

    In realtà – sottolinea Quotidiano Energia – si tratta quasi di un “vantaggio” per i consumatori visto che la bozza del decreto legge che avrebbe dovuto esaminare il cdm venerdì prima del precipitare della crisi di governo prevedeva, a copertura del rinvio, un rincaro delle accise sui carburanti di 2 centesimi al litro per tutto il 2013 e poi di 2,5 fino al 15 febbraio 2015.

    Intanto i prezzi praticati sul territorio sono ancora in calo generalizzato, per via delle numerose riduzioni di quelli raccomandati la scorsa settimana. Le medie nazionali della benzina e del diesel sono rispettivamente a 1,796 e 1,724 euro/litro (gpl a 0,813). Le “punte” in alcune aree sono per la “verde” fino a 1,844 euro/litro, il diesel a 1,751 e il gpl a 0,850.

    Fonte: LaRepubblica.it


  • Alfa e omega del Governo Letta

    Alfa e omega del Governo Letta

    Dai 101 che affossarono Prodi alla decadenza di Berlusconi. La breve vita del Governo Letta è il simbolo di una classe politica chiusa e affarista.

    Ho bisogno di sfogarmi, lo faccio qui, con la speranza di essere chiaro con quanto voglia dire.

    La situazione è incresciosa, lo sappiamo tutti e sappiamo anche che ora ci aspettano momenti molto più difficili di quelli fino ad ora prospettati.

    In tutto questo c’è dell’insulso gioco della politica, anzi, politichetta, quella politichetta che ha sempre portato avanti un certo gruppo dirigente e che oggi non ha la forza di assumersi le proprie responsabilità e di accettare che la legge sia uguale per tutti come, a mio avviso, non lo riesce ad accettare Berlusconi. Questo è il sunto delle motivazioni per cui il Governo Letta è caduto.

    Pensate sul serio che i ministri del PdL si siano dimessi per il rinvio del decreto che avrebbe permesso all’IVA di non aumentare? Suvvia, quando si fa parte di un governo si hanno tutte le carte in regola per poter condizionare i lavori del Consiglio dei Ministri, o comunque discuterne e trovare una soluzione condivisa.
    La vera motivazione, secondo me, pare più che scontata ed infatti lo è: B. non vuole decadere da senatore e per questo ha trovato la sua pezza a colori (IVA) e si è lanciato nell’ennesimo attacco terroristico al Governo Letta, prima ancora lo aveva fatto al Governo Monti.

    Ci stupiamo di questo? Spero di no, peccato però che c’è chi ancora continua a votarlo e mi chiedo se il voto sia ancora una “questione di testa”. Ma a questo quesito non risponderò, per il momento.

    Cerco, ricerco e credo che tutto questo (larghe intese, Governo Letta, oltre che alla rielezione di Napolitano e per ultimo l’aver dato ad un condannato la possibilità di decidere sulle sorti del Paese) sia da attribuire, in larga parte, ai famosi 101 parlamentari del PD che non hanno votato per l’elezione di Prodi a Presidente della Repubblica e che ha sancito il fallimento della politica parlamentare e soprattutto del centrosinistra.
    Se ad oggi i 101 non fossero mai esistiti, sono certo che ora avremmo ancora un Esecutivo e magari senza Alfano vice-Premier, e magari più di sinistra.

    Poi mi chiedo come non abbiano ragione gli elettori a dire che il PD se le cerca e che non riesce a non essere succube di logiche affaristiche di B. e di molti altri dirigenti (anche e soprattutto nostri).

    Ed ora? Cosa facciamo? Andiamo a votare con questa legge elettorale? Beh, certo, Grillo e Berlusconi vorrebbero, sapete perchè? Perchè i candidati del primo, con la preferenza personale per circoscrizione, andrebbero tutti ad affossarsi a confronto con altri candidati; il secondo perchè sa che i suoi candidati alla fine, tranne qualcuno, sono impresentabili e farebbero bene a non parlare e a farsi vedere il meno possibile sul territorio.

    Il Partito Democratico deve volere questa nuova legge elettorale, perchè sul territorio abbiamo delle sentinelle che devono essere valorizzate. Io li chiamo “soldati mandati al fronte” e sono tutti coloro che si impegnano nella propria città, nel proprio territorio e riescono a portare a casa dei risultati importanti. Invece poi, come ogni cosa, c’è qualcuno che per ragioni di sopravvivenza questa legge non la vogliono proprio vedere. Sempre all’interno del PD, sia chiaro. Rimaniamo nel pantano, a questo punto. No?

    Ecco perchè oggi sono incazzato. Scusate il francesismo.