Categoria: Politica


  • L’etica dei principi vs. l’etica della responsabilità

    L’etica dei principi vs. l’etica della responsabilità

    Le vacanze, come ogni anno, offrono del tempo prezioso per ritrovare se stessi e per riflettere su quello che sarà e su quello che si è fatto fino ad ora. Uno strumento molto utile, a tal proposito, è senza dubbio il libro.

    Ho appena finito di leggere un libro tratto da una conferenza di Max Weber, tenuta all’Università di Monaco nel 1919: La politica come professione. È un testo che consiglio di leggere, non per una banale tendenza a leggere tutto ciò che ha nel titolo la parola “politica”, ma perché è illuminante e dire che mi sono ritrovato nelle parole utilizzate da Weber è dire poco.

    C’è sempre qualcosa che ti rimane più impressa, rispetto ad altri concetti e ad altri aspetti del pensiero weberiano di questa conferenza. A me ha colpito lo sdoppiamento dell’etica in due tipologie: l’etica dei principi e l’etica della responsabilità.

    Banalmente, l’etica dei principi è incarnata da chi lotta e agisce mosso dai soli principi che ritiene di custodire e voler concretizzare con le proprie azioni. Il soggetto che rispecchia tale descrizione è colui che, oltremodo, ritiene stupidi e ignoranti tutti coloro che la pensano diversamente da lui, che non hanno i suoi stessi principi e non sono mossi dallo stesso fervore. Oggi individuare tali soggetti non è per niente difficile, ma ci tornerò in un secondo momento.

    L’etica della responsabilità, invece, è l’opposto di quella dei principi, se presa isolatamente: agire secondo responsabilità significa burocratizzare l’azione, renderla risultato di effetti concatenati, sviluppati a tavolino, strettamente legati ai loro effetti nella realtà. Agire secondo l’etica della responsabilità, oggi, significa approntare una mera azione amministrativa: per raggiungere l’obiettivo x devo fare e z; per poter fare y devo ottenere ab c. Di questo modello di azione, a mio modo di vedere, ne è intrisa la classe politica attuale, classe di funzionari e burocrati della politica, ma non di politici di professione.

    Per Weber, il politico di professione – quello vero – è colui che agisce sia secondo l’etica dei principi e sia secondo l’etica della responsabilità. Un sistema a due che offre, non soltanto, una capacità di lettura del mondo completa, ma le stesse etiche offrono al politico di svincolarsi dal mero corso della Storia e farsi Storia.

    Oggi chi agisce secondo l’etica dei principi? E chi secondo quella della responsabilità? C’è qualcuno che rappresenta l’unione di entrambe? Chiaramente, al mondo, come in Italia, esistono tutti e tre gli esempi, ma dovendo individuare quale categoria oggi detenga il potere, la difficoltà nel farlo è pari a zero: oggi il potere è animato dall’etica della responsabilità. La classe politica è composta da funzionari e burocrati della politica, da quelli che Weber chiama anche imprenditori della politica, cioè coloro che credono di gestire un partito o una Nazione come un’azienda. L’agire della classe politica è assimilabile al concetto di semplice amministrazione, di mera gestione delle cose, ordinata o meno che sia. Questo metodo è sbagliato, come sbagliato è l’altro, basato sull’etica dei principi. Perché sono sbagliati entrambi? Perché una sola etica non porta da nessuna parte.

    Ma se abbiamo individuato coloro che agiscono secondo l’etica della responsabilità, chi agisce secondo l’etica dei principi? Tutti coloro che definiremmo tifosi della politica. Ovviamente Weber non parla di tifo, ma osserva come chi è mosso da tale etica è munito da paraocchi, da una taratura culturale fittizia che impedisce ogni tipo di confronto, ogni tipo di scambio di idee. Chi la pensa diversamente da lui è il responsabile del male del mondo ed è uno stupido che merita di soffrire nel male da lui stesso provocato.
    Fare due più due e subito l’associazione di idee giunge ad un risultato lampante: oggi chi agisce secondo l’etica dei principi (e basta) è colui che trova nomignoli offensivi a chi non è dalla sua stessa parte; è colui che al confronto sostituisce l’offesa personale e sociale; è colui che, trovandosi in una situazione che non rispecchia i suoi principi, preferisce scappare e non combattere per cambiarla.

    In tutto questo, chi, invece, rappresenta l’unione delle due etiche? Oggi chi incarna l’etica dei principi e l’etica della responsabilità, insieme, è colui che vive la politica come un servizio civile permamente, ponendo la prospettiva al centro del suo pensiero politico. Oggi agisce con tale metodo chi guarda oltre l’utilitarismo, chi offre una prospettiva lungimirante, frutto di un sogno moderno, di un sentirsi parte del mondo. Oggi essere “bi-etico”, per dirla con una metafora, significa immaginare il mattone ideale e come costruirci una casa, e non meramente immaginare il mattone perfetto né, tantomeno, immaginare solamente come prendere un mattone e unirlo ad un altro con del cemento. Probabilmente l’esempio è un po’ tortuoso, ma, dal mio punto di vista, rende l’idea.

    Oggi abbiamo paura a definirci politici di professione, perché la politica si è trasformata in un semplice insieme di privilegi e, quindi, il politico di professione viene visto come colui che di lavoro fa il “privilegiato”. Ma non confondiamo la politica come professione con i diversi ruoli che un politico può occupare. Il ruolo non fa il politico e viceversa. Si fa politica ogni giorno, indipendentemente dal ruolo ricoperto o dalla posizione nella società. Chiaramente, c’è chi sviluppa il proprio pensiero politico una volta all’anno (in media) – durante le elezioni, nella scelta del candidato da votare – e chi, invece, fa della politica la propria vita e del proprio pensiero politico il suo pane quotidiano e il perno su cui ruota il proprio agire. Non dobbiamo disprezzare né l’uno e né l’altro modo di intendere la politica – sono il risultato del libero arbitrio dell’uomo e del destino – chi di noi ha scelto la propria vocazione?. Il rispetto è cosa fondamentale per gettare le fondamenta di una società che spiani la strada al corso naturale delle cose e, magari, alla nascita di una classe politica “bi-etica” e non più “mono-etica”.

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  • Il conto salato di sto…

    Stefano Feltri, sul Fatto Quotidiano, parla di un amaro destino che tocca e toccherà a coloro che, purtroppo (sue parole), studiano o decideranno di studiare materie umanistiche all’università.

    Tra qualche settimana molti studenti cominceranno l’università. I loro genitori che si sono laureati circa trent’anni fa potevano permettersi di sbagliare facoltà, errore concesso in un’economia in crescita.

    Sbagliare facoltà. Sbagliare. Chi può dirmi se ho sbagliato o meno facoltà, all’infuori di me? Nessuno. Perciò, al caro Feltri dico che è meglio farsi gli affaracci propri e che l’ingerenza è brutta cosa sempre, figuriamoci riguardo ad un argomento delicato come quello della scelta degli studi universitari.

    Ma vi pare mai possibile che debba dedicare la mia vita a qualcosa che mi riempia le tasche e non il cuore? Ma è mai possibile che si debba intendere la vita come un semplice percorso che ha un fine ben preciso? Ma è mai possibile che io debba leggere una cosa del genere e che mi debba vergognare di aver perso un minuto del mio tempo nel farlo?

    Se Feltri voleva creare scalpore nel scrivere un articolo del genere, devo stroncare il suo entusiasmo: ormai sappiamo che cani e porci possono scrivere su un giornale e pretendere di avere la verità in tasca. Roba già vista.

    Noi continuiamo ad impegnarci per una società che accolga a braccia aperte ogni scelta libera e coscienziosa. Nessuno si senta legato nelle scelte di vita – perché è di questo che stiamo parlando – da interessi economici. Nessuno potrà mai dirti quanto guadagnerai, quanto e quando lavorerai e se farai quello che hai sempre sognato. Ognuno per la propria strada. Il mondo ha ancora bisogno del variegato e non del grigiore delle scelte come “investimento”.


  • Far funzionare il mondo

    Minuti, ore, giorni, settimane, anni passati nel capire come va il mondo, a come farlo funzionare e poi provarci. Questa potrebbe essere una definizione esistenziale della politica e del suo essere.

    Come farlo funzionare: il mondo funziona a modo suo, è chiaro, ma quando poi ci si rende conto che con impegno e passione si possono costruire dalle piccole alle grandi cose, allora lì la politica ha raggiunto il suo punto più bello.

    A Monte Sant’Angelo, una cittadina in provincia di Foggia, il Comune è stato sciolto per infiltrazioni mafiose. Un gruppo di giovani – che dedicano il loro tempo a far funzionare il mondo che lo circonda – aveva denunciato da tempo tutti quei soprusi che hanno portato all’epilogo, pagandone un caro prezzo. Minacce, atti di violenza e intimidazione. A Giovanni, giovanissimo consigliere comunale, ad esempio, gli hanno incendiato l’auto. Aveva denunciato una manifesta illegalità nella gestione dei servizi comunali.

    Oggi, a Giovanni e a quei ragazzi di Monte Sant’Angelo dico di non demordere e che il Comune sciolto per mafia è una sconfitta per la criminalità ma non per il mondo e per chi, come loro, cercando di farlo funzionare al meglio.


  • Carabinieri e Forestale, grande opportunità

    Credo che l’accorpamento del Corpo Forestale dello Stato all’Arma dei Carabinieri, a seguito della riforma della PA non sia una nota negativa, anzi, credo che dia lustro e forza a chi, ogni giorno, custodisce l’ambiente che ci circonda e a chi lavora per salvaguardare l’ordine pubblico e la sicurezza delle nostre città. Sono sempre stato fiero dell’Arma, della Polizia e di tutte le Forze Armate, forse perché metà della mia famiglia è stata ed è al servizio del Paese nelle fila delle FF.AA.
    Non capisco quelli che adesso stanno sostenendo una petizione online per impedire l’accorpamento. Accorpare significa ridurre gli sprechi, significa avanzare nella direzione giusta, avvicinando le nostre Forze dell’Ordine agli standard europei, migliorando gli investimenti lì dove servono.


  • Due cose sul Mezzogiorno e sulla Direzione PD di oggi

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    Oggi, alle 15, ci sarà la Direzione nazionale del Partito Democratico. Tema: Mezzogiorno. Il motivo? È servito il documento della SVIMEZ per smuovere un po’ le acque e per capire che il Sud non se la passa proprio benissimo (ma neanche malissimo, sotto certi aspetti, per dire).

    Subito dopo l’allarme proveniente da quei dati, che parlavano di un’Italia divisa in due, con differenze che si allargano sempre più, il Ministro dello Sviluppo Economico, Federica Guidi, ha subito annunciato un piano di 80 miliardi sulle infrastrutture; oggi sul Corriere della Sera si parla di un fondo di 100 miliardi proveniente dall’Unione europea.

    Insomma, l’avete capito? Il problema del Sud è che non ci sono soldi da spendere, e con più soldi riusciamo a risolvere il problema del Mezzogiorno. Poveri gufi, tutti quelli che credono che il problema sia culturale e politico. Ne faremo brodo.

    Lanciato il progetto della banda ultra-larga. Finalmente, diremmo, anche se, per esempio, la Puglia ha cominciato ad installare sul proprio territorio la fibra ottica da un po’ di tempo a questa parte, attraverso l’utilizzo dei fondi comunitari. Devo dire che è stato fatto un ottimo lavoro, anticipando i tempi del Governo nazionale.

    Ma tornando a noi e ai famosissimi e sempre sbandierati “più fondi per il Sud”, è chiaro che per l’ennesima volta non comprendiamo il vero problema di questo divario socio-economico-politico che ha tranciato l’Italia in due. I soldi non faranno la differenza, ma saranno semplicemente uno dei tanti strumenti a disposizione, ma non saranno i più importanti. Lo strumento più importante è la testa.

    Il Mezzogiorno non puzza. Il Mezzogiorno ha tutte le carte in regola per competere sul mercato, per essere forza trainante di un Paese, ma soprattutto per non essere trattata come ultima ruota del carro. Un esempio tra tutti, l’azienda di Monopoli (BA) che ha fornito il Giappone di alcuni pezzi per i treni ad altissima velocità di ultima generazione.

    Vera sfida? Pensare che Bari e Milano non siano così distanti tra loro e che ipotizzare eventi di caratura internazionale (oltre che nazionale) in una città del Sud non sia eternamente impossibile. Bisogna riportare il Sud al centro dell’Italia e dell’Europa.

    Tutto qui? Certo che no. Cambiare atteggiamento verso chi manifesta un disagio, evidenzia un problema. Non sono piagnoni quelli che vogliono delle risposte o cercano di darle. Il primo passo per risolvere un problema è riconoscerne l’esistenza. Credo che questo non tutti lo abbiano capito (o non vogliono capirlo).

    Dunque? Cambiare atteggiamento su tutta la linea. Il Mezzogiorno cambierà quando a cambiare sarà la cultura, il senso civico, quando Europa non sarà semplicemente sinonimo di “Fondo Sociale Europeo”, “Fondo Europeo per lo Sviluppo Regionale” o “Fondo per le Aree Sottoutilizzate” e di qualche cartello di opera pubblica qua e la, ma quando sarà sinonimo di modello di sviluppo, di modello civico. Il Mezzogiorno cambierà quando la politica riuscirà a realizzare un sistema di sviluppo capace di non considerare il Sud e il Nord come due parti geografiche e diverse del Paese, ma come due modelli culturali e come tale partire da quei modelli per creare un sistema capace di saper trarre il massimo da ciò che rappresentano, da ciò che è insito nella Storia di ogni territorio.

    Non c’è errore più grande nel credere che ci sia un pezzo d’Italia che ne rincorra un altro. In questo momento le direzioni sono divergenti. Dobbiamo lavorare per un modello di sviluppo che accosti le due traiettorie, ma mai immaginandole come una dietro l’altra. L’abbiamo fatto e abbiamo sbagliato, ogni volta.

    Spero che nella Direzione di oggi si possa illustrare un nuovo panorama per il Mezzogiorno, dove i governatori delle regioni meridionali (tutti PD) sappiano sfruttare il loro ruolo e che il Governo non intenda il loro impegno come un ostacolo alla propria azione o, peggio ancora, una rivolta.

    Ci si salva e si va avanti se si agisce insieme e non solo uno per uno.

     


  • Con il cuore a Suruç

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    Non posso terminare questa giornata, senza fermarmi e raggiungere con il cuore i giovani socialisti curdi e turchi che stamane sono stati vittime di un attentato barbaro, contro ogni immaginazione, ad opera di una loro coetanea – 18 anni vicina all’ISIS – che si è fatta esplodere durante una manifestazione.


  • Un movimento per l’Europa libera e unita

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    Nel breve intenso periodo di crisi generale, in cui gli stati nazionali giaceranno fracassati al suolo, in cui le masse popolari attenderanno ansiose la parola nuova e saranno materia fusa, ardente, suscettibile di essere colata in forme nuove, capace di accogliere la guida di uomini seriamente internazionalisti, i ceti che più erano privilegiati nei vecchi sistemi nazionali cercheranno subdolamente o con la violenza di smorzare l’ondata dei sentimenti e delle passioni internazionalistiche, e si daranno ostinatamente a ricostruire i vecchi organismi statali. Ed è probabile che i dirigenti inglesi, magari d’accordo con quelli americani, tentino di spingere le cose in questo senso, per riprendere la politica dell’equilibrio delle potenze nell’apparente immediato interesse del loro impero.

    Le forze conservatrici, cioè i dirigenti delle istituzioni fondamentali degli stati nazionali: i quadri superiori delle forze armate, culminanti là, dove ancora esistono, nelle monarchie; quei gruppi del capitalismo monopolista che hanno legato le sorti dei loro profitti a quelle degli stati; i grandi proprietari fondiari e le alte gerarchie ecclesiastiche, che solo da una stabile società conservatrice possono vedere assicurate le loro entrate parassitarie; ed al loro seguito tutto l’innumerevole stuolo di coloro che da essi dipendono o che sono anche solo abbagliati dalla loro tradizionale potenza; tutte queste forze reazionarie, già fin da oggi, sentono che l’edificio scricchiola e cercano di salvarsi. Il crollo le priverebbe di colpo di tutte le garanzie che hanno avuto fin’ora e le esporrebbe all’assalto delle forze progressiste.

    Ma essi hanno uomini e quadri abili ed adusati al comando, che si batteranno accanitamente per conservare la loro supremazia. Nel grave momento sapranno presentarsi ben camuffati. Si proclameranno amanti della pace, della libertà, del benessere generale delle classi più povere. Già nel passato abbiamo visto come si siano insinuati dentro i movimenti popolari, e li abbiano paralizzati, deviati convertiti nel preciso contrario. Senza dubbio saranno la forza più pericolosa con cui si dovrà fare i conti.

    Il punto sul quale essi cercheranno di far leva sarà la restaurazione dello stato nazionale. Potranno così far presa sul sentimento popolare più diffuso, più offeso dai recenti movimenti, più facilmente adoperabile a scopi reazionari: il sentimento patriottico. In tal modo possono anche sperare di più facilmente confondere le idee degli avversari, dato che per le masse popolari l’unica esperienza politica finora acquisita è quella svolgentesi entro l’ambito nazionale, ed è perciò abbastanza facile convogliare, sia esse che i loro capi più miopi, sul terreno della ricostruzione degli stati abbattuti dalla bufera.

    Se raggiungessero questo scopo avrebbero vinto. Fossero pure questi stati in apparenza largamente democratici o socialisti, il ritorno del potere nelle mani dei reazionari sarebbe solo questione di tempo. Risorgerebbero le gelosie nazionali e ciascuno stato di nuovo riporrebbe la soddisfazione delle proprie esigenze solo nella forza delle armi. Loro compito precipuo tornerebbe ad essere, a più o meno breve scadenza, quello di convertire i loro popoli in eserciti. I generali tornerebbero a comandare, i monopolisti ad approfittare delle autarchie, i corpi burocratici a gonfiarsi, i preti a tener docili le masse. Tutte le conquiste del primo momento si raggrinzerebbero in un nulla di fronte alla necessità di prepararsi nuovamente alla guerra.

    Il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in stati nazionali sovrani. Il

    crollo della maggior parte degli stati del continente sotto il rullo compressore tedesco ha già accomunato la sorte dei popoli europei, che o tutti insieme soggiaceranno al dominio hitleriano, o tutti insieme entreranno, con la caduta di questo in una crisi rivoluzionaria in cui non si troveranno irrigiditi e distinti in solide strutture statali.

    Gli spiriti sono giù ora molto meglio disposti che in passato ad una riorganizzazione federale dell’Europa. La dura esperienza ha aperto gli occhi anche a chi non voleva vedere ed ha fatto maturare molte circostanze favorevoli al nostro ideale.

    Tutti gli uomini ragionevoli riconoscono ormai che non si può mantenere un equilibrio di stati europei indipendenti con la convivenza della Germania militarista a parità di condizioni con gli altri paesi, né si può spezzettare la Germania e tenerle il piede sul collo una volta che sia vinta. Alla prova, è apparso evidente che nessun paese d’Europa può restarsene da parte mentre gli altri si battono, a nulla valendo le dichiarazioni di neutralità e di patti di non aggressione. E’ ormai dimostrata la inutilità, anzi la dannosità di organismi, tipo della Società delle Nazioni, che pretendano di garantire un diritto internazionale senza una forza militare capace di imporre le sue decisioni e rispettando la sovranità assoluta degli stati partecipanti. Assurdo è risultato il principio del non intervento, secondo il quale ogni popolo dovrebbe essere lasciato libero di darsi il governo dispotico che meglio crede, quasi che la costituzione interna di ogni singolo stato non costituisse un interesse vitale per tutti gli altri paesi europei.

    Insolubili sono diventati i molteplici problemi che avvelenano la vita internazionale del continente: tracciati dei confini a popolazione mista, difesa delle minoranze allogene, sbocco al mare dei paesi situati nell’interno, questione balcanica, questione irlandese, ecc., che troverebbero nella Federazione Europea la più semplice soluzione, come l’hanno trovata in passato i corrispondenti problemi degli staterelli entrati a far parte delle più vaste unità nazionali, quando hanno perso la loro acredine, trasformandosi in problemi di rapporti fra le diverse provincie.

    D’altra parte la fine del senso di sicurezza nella inattaccabilità della Gran Bretagna, che consigliava agli inglesi la “splendid isolation”, la dissoluzione dell’esercito e della stessa repubblica francese, al primo serio urto delle forze tedesche – risultato che è da sperare abbia di molto smorzata la presunzione sciovinista della superiorità gallica – e specialmente la coscienza della gravità del pericolo corso di generale asservimento, sono tutte circostanze che favoriranno la costituzione di un regime federale che ponga fine all’attuale anarchia. Ed il fatto che l’Inghilterra abbia accettato il principio dell’indipendenza indiana, e la Francia abbia potenzialmente perduto col riconoscimento della sconfitta, tutto il suo impero, rendono più agevole trovare anche una base di accordo per una sistemazione europea dei problemi coloniali.

    A tutto ciò va infine aggiunta la scomparsa di alcune delle principali dinastie e la fragilità delle basi di quelle che sostengono le dinastie superstiti. Va tenuto conto, infatti, che le dinastie, considerando i diversi paesi come tradizionale appannaggio proprio, rappresentavano, con i poderosi interessi di cui erano l’appoggio, un serio ostacolo alla organizzazione razionale degli Stati Uniti d’Europa, il quale non possono poggiare che sulla costituzioni repubblicane di tutti i paesi federati.

    E quando, superando l’orizzonte del vecchio continente, si abbracci in una visione di insieme tutti i popoli che costituiscono l’umanità, bisogna pur riconoscere che la federazione europea è l’unica garanzia concepibile che i rapporti con i popoli asiatici e americani possano svolgersi su una base di pacifica cooperazione, in attesa di un più lontano avvenire, in cui diventi possibile l’unità politica dell’intero globo.

    La linea di divisione fra i partiti progressisti e partiti reazionari cade perciò ormai, non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa coloro che concepiscono, come campo centrale della lotta quello antico, cioè la conquista e le forme del potere politico nazionale, e che faranno, sia pure involontariamente il gioco delle forze reazionarie, lasciando che la lava incandescente delle passioni popolari torni a solidificarsi nel vecchio stampo e che risorgano le vecchie assurdità, e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, lo adopereranno in primissima linea come strumento per realizzare l’unità internazionale.

    Con la propaganda e con l’azione, cercando di stabilire in tutti i modi accordi e legami tra i movimenti simili che nei vari paesi si vanno certamente formando, occorre fin d’ora gettare le fondamenta di un movimento che sappia mobilitare tutte le forze per far sorgere il nuovo organismo, che sarà la creazione più grandiosa e più innovatrice sorta da secoli in Europa; per costituire un largo stato federale, il quale disponga di una forza armata europea al posto degli eserciti nazionali, spazzi decisamente le autarchie economiche, spina dorsale dei regimi totalitari, abbia gli organi e i mezzi sufficienti per fare eseguire nei singoli stati federali le sue deliberazioni, dirette a mantenere un ordine comune, pur lasciando agli Stati stessi l’autonomia che consente una plastica articolazione e lo sviluppo della vita politica secondo le peculiari caratteristiche dei vari popoli.

    Se ci sarà nei principali paesi europei un numero sufficiente di uomini che comprenderanno ciò, la vittoria sarà in breve nelle loro mani, perché la situazione e gli animi saranno favorevoli alla loro opera e di fronte avranno partiti e tendenze già tutti squalificati dalla disastrosa esperienza dell’ultimo ventennio. Poiché sarà l’ora di opere nuove, sarà anche l’ora di uomini nuovi, del movimento per l’Europa libera e unita!

    — Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni | Il Manifesto di Ventotene


  • Difendo Elena perché difendo la professionalità

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    Elena Laterza è una giornalista davvero in gamba, lo ha dimostrato sul campo ogni volta c’era bisogno del suo intervento. Lavora con il Presidente Emiliano sin da quando, quest’ultimo, era Sindaco di Bari. Io l’ho conosciuta in quel periodo e da quel giorno ho solo avuto conferme della sua professionalità e della sua correttezza.

    Quello che è venuto fuori su La Repubblica di Bari è un articolo sconcertante, che solo lontanamente potremmo accostare ad un articolo di un giornalino scolastico. Uno scoop che non è uno scoop, perché bastava informarsi (o forse si è semplicemente in malafede) per capire che la persona presa di mira svolgeva lo stesso incarico, assegnatoli ora, anche quando Emiliano era Primo Cittadino del Capoluogo.

    Insomma, una vera vergogna, alimentata, peraltro, dal Movimento 5 Stelle e dal suo “portavoce rappresentante candidato presidente cittadino” Antonella Laricchia.

    Esprimo la mia vicinanza ad Elena e la auguro buon lavoro.