Al di là delle differenze cromatiche, l’accostamento è chiaro e scontato (per certi versi): se nasci al Nord sei più fortunato, mentre se sei del Sud, oltre a dover fare i conti con l’organizzazione elefantiaca degli Atenei, devi anche beccarti uno stipendio “dimezzato” rispetto ai tuoi colleghi della Pianura padana.
A ricordarcelo è l’ultimo studio affrontato da JobPricing, per Repubblica, con tanto di classifica per mettere i puntini sulle i.
Da quello che comprendo (non me ne vogliano i pasionari delle classifiche), si nota una tendenza al racconto. E basta.
Raccontare la situazione degli Atenei senza comprendere la loro storia, senza conoscere la vita che, di fatto, si sviluppa tra le mura delle aule dove diverse generazioni hanno gettato lacrime e sangue. Ma raccontarla non attraverso dei dati “su misura”, ma attraverso le grigie classifiche per punteggi (con criteri per niente chiari). E per “su misura”, intendo uno studio affrontato con gli strumenti idonei a collocare la realtà universitaria in uno spazio ben definito, al centro del territorio in cui essa svolge la propria funzione.
Mi sta terribilmente sugli zebedei (mi perdonerete la moderazione) il costante ritornello “le università del Nord sono più collegate con la realtà lavorativa del loro territorio”. A tale concetto, io rispondo con un’altra riflessione: sarebbe davvero triste non “sfruttare” le realtà aziendali che coprono il Nord Italia. Le università settentrionali hanno questa potenzialità perché c’è un tessuto aziendale di gran lunga più radicato e solido di quello del Mezzogiorno, dovuto ad una diversificazione dell’economia locale (differenza c’è anche tra Nord e Centro e Centro e Sud).
Lo ripeterò fino alla fine: possiamo parlare delle università in termini di ricchezza pro capite, possiamo classificarle con criteri che peccano di intelligenza, possiamo diffondere a mezzo stampa il concetto che “se sei del Sud e studi al Sud, ti aspetta una vita di serie B, con uno stipendio di serie C, in un territorio di serie D“, oppure possiamo cancellare questo razzismo 2.0 – basato sul niente e al soldo di chi da tali classifiche ne giova – e cominciare a sviluppare l’idea di un sistema scolastico e universitario capace di unire l’Italia, di unificare un popolo.
Voglio pensare ai miei studi come lo strumento che mi permetta di essere uguale a chi (in apparenza) è più fortunato di me, augurandomi che gli studenti settentrionali e del Centro Italia si sentano uguali a chi come loro ha studiato e percorso anni della sua vita a formarsi.
Uguaglianza, ecco cosa dovrebbero diffondere le università italiane.
Silenzio, è quello che dovrebbero fare le società di classificazione, alcune volte.
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