Ddl Anticorruzione, Art. 10.
Potrei concludere con il precedente brevissimo periodo, questo articolo, ma voglio commentare quella assurda necessità che spinge il Governo a presentare alle Camere un disegno di legge che oltre a regolamentare le pene per chi corrompe nel pubblico e nel privato, pone il divieto d’accesso, ai condannati, in Parlamento.
“Finalmente!”, direte voi. Purtroppo no.
Purtroppo non è un aspetto positivo questo, non tanto per il Governo, ma quanto per il nostro Paese, perché mette in luce aspetti negativi della nostra società, che non riesce a respingere, in completa autonomia da leggi e obblighi giuridici, dei condannati dalle cariche pubbliche. Basterebbe un po’ di moralità e di senso del dovere, soprattutto all’interno dei partiti, per evitare che si presentino alle elezioni candidati condannati in via definitiva. Siamo garantisti, certo, ma chi è stato dichiarato colpevole, non può rappresentare i cittadini e per rendere reale questa condizione, non sarebbe servita, in un paese civile, una legge. Per me, questo nuovo capitolo della giustizia italiana, non è al 100% positivo. Mi dispiace molto, ma credo nell’autoregolamentazione, prima dell’intervento dello Stato. Se lo Stato si inserisce all’interno delle scelte dei criteri di candidabilità, vuol dire che i partiti sono stati spogliati della loro funzione, importante, di selezione della classe politica, buona, efficiente, onesta.
Mi sembra di vivere nella scuola italiana degli anni ’30, quando le maestre (lo Stato), puniva gli scolari (i partiti) dietro la lavagna, con ceci e pietroline (leggi) sotto le ginocchia.
Ceci e pietroline
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