Donald Trump è il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America. Cosa ormai nota a tutti e, grazie a Facebook, ho potuto leggere le più disparate analisi sulle elezioni americane. Proviamo a fare un po’ di ordine e a spazzare via un po’ di tutto.
Il dato sulla vittoria di The Donald è cristallino: i democratici hanno perso. Ma davvero? Servivo io per dirvelo? No. Infatti dipende da come intendiamo leggere i dati.
Il sistema di elezione del Presidente degli Stati Uniti avviene per il tramite di grandi elettori (electors per l’esattezza), assegnati ad ognuno dei 50 stati federati (più il Distretto di Columbia), in proporzione alla popolazione di ciascuno di essi.
Come potete vedere dalla mappa, la California (con 37 253 956 abitanti, cens. 2012) è lo Stato più popoloso ed esprime ben 55 grandi elettori, a differenza del Wyoming (con 584 153 abitanti, cens.2012) che è lo Stato meno popoloso degli USA.
Il totale dei grandi elettori che hanno il compito di eleggere il Presidente e il Vice Presidente è di 538, nei quali sono compresi i 3 electors del Distretto di Columbia, che non è uno Stato federato ma un distretto federale, tuttavia rappresentato da 3 grandi elettori, come stabilito dal XXIII emendamento, il quale prevede che il numero di electors sia uguale a quello che spetterebbe se fosse uno Stato, ma comunque non superiore a quello degli elettori designati dallo Stato meno popoloso.
La particolarità del sistema elettorale statunitense è che i candidati presidente devono vincere stato per stato e non in termini di voti assoluti nell’intera Federazione.
Il sistema del winner takes all consiste nell’attribuzione di tutti i grandi elettori di uno Stato a quel candidato che, anche per un semplice voto in più, risulta essere maggioritario nello stesso. In un sistema proporzionale (esistente soltanto in Nebraska e nel Maine) qualora i candidati arrivassero quasi al pareggio, avremmo una divisione spacchettata a metà dei delegati, mentre con il sistema del winner takes all, il candidato che ottiene il 50%+1 dei voti prende il 100% dei delegati.
Cosa comporta questo sistema? Innanzitutto è la manifestazione concreta del concetto di federazione presente negli USA: gli Stati non sono considerati come delle pseudo-autonomie, ma come Stati veri e propri, trasformando il risultato delle Presidenziali come una vera e propria battaglia elettorale su dimensione nazionale di ogni singolo stato federato.
Come secondo effetto, c’è la distorsione del voto popolare in numeri assoluti. Anche qui, è opportuno fare un dettagliato esempio: Al Gore contro George W. Bush nel 2000. Il candidato democratico ottenne più voti di quello repubblicano, ma prese meno grandi elettori del suo avversario, perdendo le elezioni.
Lo stesso caso si è verificato ora, tra Clinton e Trump. Infatti, Hillary Clinton ha preso ben 59.938.290 voti, contro i 59.704.886 di Trump. La candidata democratica ha preso oltre 200.000 voti in più rispetto al Tycon che, tuttavia, ha ottenuto 306 grandi elettori, contro i 232 dei democratici. Nessun complotto, ma “effetti collaterali” di un sistema elettorale che, comunque, rispetta la forma federale della Repubblica. Vi basta vedere la mappa con gli stati blu e rossi, per capire che anche se ha preso più voti, la Clinton rimane comunque meno votata nei singoli stati, soprattutto in quelli con più grandi elettori.
Interessante è il voto dei giovani che è, in modo schiacciante, maggiormente democratico. Ecco cosa sarebbe successo se gli unici a votare fossero state le giovani generazioni.
Premetto che, come dice Francesco Costa, sulla sua newsletter che ha accompagnato tutti gli appassionati durante tutta la campagna elettorale delle Elezioni presidenziali, “immagino a questo punto che molti di voi cerchino delle risposte, delle spiegazioni, a un simile capovolgimento: non tanto e non solo dei sondaggi ma delle regole più basilari della politica, del semplice buon senso. Io quelle spiegazioni per il momento non credo di averle“. Bene, quelle spiegazioni non sono facilmente individuabili. La complessità è tante e ognuno potrebbe buttarla su un tema ben preciso per darsi una spiegazione: economia, armi, politica estera, simpatia, basta con le solite 2 famiglie che si alternano alla Casa Bianca, ecc.
Non volendo affiancarmi agli esperti citati nel primo paragrafo, mi limiterò a sfatare qualche chiacchiericcio delle ultime ore, con delle mie supposizioni/analisi.
» Il voto a Trump è un voto di protesta, contro la finanza, i poteri forti, i banchieri e i puffi.
Falso! È davvero difficile credere che un miliardario possa essere contro la finanza, i poteri forti e i banchieri.
Il voto a Trump è un voto molto più complesso da spiegare, che fa rima con la paura; il disagio sociale presente in molte parti degli Stati Uniti; un problema occupazionale che in alcuni Stati è molto presente – se pur Obama ha attuato politiche virtuose che hanno ridotto il tasso di disoccupazione al di sotto del 5%.
Ma Trump è anche quello della vendita senza freni delle armi – durante la campagna elettorale, a seguito di attentati ad opera di squilibrati (americani doc), difese la loro vendita, scagliandosi contro Obama che voleva una legislazione più dura e pressante sul settore – e dell’opposizione ad una sanità aperta a tutti, pronto allo smantellamento dell’ObamaCare – ricordiamoci che prima della riforma voluta da Obama, per poter essere curato negli ospedali bisognava essere in possesso di un’assicurazione sanitaria e di una carta di credito, indipendentemente dal tuo reddito e dalla tua situazione occupazionale.
Non pensiate non ci sia gente che vota anche e soltanto per questo. Leggete qui ed anche e soprattutto qui, per capirci di più. E se volete approfondire ulteriormente, anche qui.
Altro elemento molto importante per leggere il voto degli statunitensi è il “prima pensiamo a casa nostra” lanciato da Trump, circa la politica estera – vedere la promessa di un sempre minore impegno degli USA sulla NATO, gli interventi da “poliziotto” sulle Nazioni con disordini interni e anche gravi (vedi la Turchia), oppure il non facile rapporto con la Russia, accentuato dalla proposta della Clinton di attivare una no fly zone sulla Siria, in disaccordo con il candidato repubblicano. Leggete qui, per approfondire.
E se proprio non ne siete convinti, guardate un po’ chi c’è tra i possibili ministri. Goldman Sachs e JP Morgan vi dicono qualcosa? Potrebbe esprimere il prossimo Ministro del Tesoro e non solo.
» La vittoria di Trump è sinonimo di come la politica abbia perso il contatto con la gente.
Falso! Trump ha vinto perché è stato più bravo della Clinton ad essere in contatto con le esigenze dei cittadini americani. Il Tycon è riuscito ad intercettare la rabbia e la paura di moltissimi cittadini in difficoltà, parlando alla pancia della gente e dimostrando, da bravo comunicatore, di saper dire ciò che i cittadini volevano sentire da un candidato alla Casa Bianca. Gaffes a parte, sia chiaro, anche se più che affossarlo lo hanno agevolato moltissimo, facendolo rimbalzare su tutti i network senza spendere un centesimo in messaggi elettorali a pagamento, a differenza della sua competitor. “I’m Hillary Clinton and I approved this message” costa milioni.
Rimanendo nel campo comunicativo, la campagna aggressiva e quasi terrorizzante di Trump, nei confronti della Clinton, ha destato non pochi timori nell’elettorato nei confronti della candidata dem. Giusto per darvi qualche esempio:
Hillary Clinton is under FBI investigation AGAIN. She exposed America’s most sensitive secrets, putting our national security at risk. Crooked is UNFIT to serve as our president. When I’m elected, I will PROTECT our people and our country! #AmericaFirst
Pubblicato da Donald J. Trump su Giovedì 3 novembre 2016
» Con Trump presidente, per l’Europa saranno tempi difficili.
Tutt’altro! Se Trump allenta la presa degli USA sul resto del mondo, con meno influenza sulle scelte di politica estera e di difesa, per l’Europa si apre una grande opportunità di crescita e di maturazione politica. Serve, però, maggior coesione e una chiara intenzione, da parte degli Stati membri, di andare oltre le posizioni dei singoli, realizzando la tanto importante politica estera comune, influenzando maggiormente nei processi geopolitici del Pianeta. Facendo attenzione alla Russia e alla Cina. Tornate a questo articolo, per approfondire.
» Hillary Clinton poteva diventare la prima donna alla Casa Bianca.
E quindi? Immagino che questa sia la riflessione più impopolare tra quelle da me riportate qui ma, signori miei (cit.), la politica si fa con le idee, non con il proprio genere sessuale. La vera rivoluzione non sta nel fare scelte sulle persone in base al loro essere donne o uomini, ma a ciò che essi sono come persone, in base alle loro idee, alle loro capacità. Oggi la vera rivoluzione sarebbe quella di abbattere il criterio del sesso dalla considerazione che noi abbiamo di una persona.
Hillary Clinton è una donna? Mi pare chiaro. Si è persa un’occasione storica? Certo che no. Nel Partito Democratico statunitense ci sono migliaia di donne in gamba, con tutte le carte in regola per poter aspirare alla Casa Bianca. Una tra tutte: la Senatrice Elizabeth Warren. Una forza della natura, non perché donna, ma per la tenacia, la passione e la credibilità che spende ogni giorno per molte battaglie importanti (e di sinistra) al Congresso e con l’Amministrazione Obama.
Tra le tante cose dette dalla Clinton durante il suo discorso di sconfitta, c’era l’esortazione alle ragazze americane di non perdersi d’animo e di essere convinte, sempre di più, che per loro non ci saranno ostacoli nel raggiungere i propri sogni. Ecco, io non ne ho dubbi e il fatto che il candidato (questa volta donna) democratico alla Casa Bianca sia stato sconfitto non significa nulla.
Piuttosto c’è la questione degli stipendi differenti a parità di mansione, tra uomo e donna. Quello è un tema su cui fare battaglie serrate. E non serve un presidente donna per risolverlo, ma un presidente capace. Che sia uomo o donna poco importa.
» I Simpson sono stati profetici: nel 2000 avevano predetto Trump presidente.
Una delle più grandi boiate che io abbia mai letto sulle Elezioni americane. E si è scritto di tutto sul tema.
Quel famoso episodio che nelle ultime ore viene definito profetico, in realtà, è del 2015. La campagna elettorale per la presidenza era iniziata da un pezzo. Ma vi pare possibile che ci azzecchino la scena delle scale mobili, oppure la stessa grafica della campagna elettorale di The Donald? Dai!
Oltretutto, se sostenete tale tesi, probabilmente non avete mai visto i Simpson: nel 2000 avevano una fisionomia molto meno definita dell’attuale. Perciò è una bufala bella e buona.
» La mia personalissima opinione sulla vittoria di Trump.
C’era d’aspettarselo. Lo dico senza fare la parte del saputello o di quello che aveva la previsione in tasca. Non vi nascondo che questa tornata elettorale delle Presidenziali non mi abbia entusiasmato per niente.
Tornando alla previsione di queste elezioni, un dato secondo me viene sottovalutato da tutti coloro che, stupiti, provano a dare una spiegazione alla elezione di Trump: dalla parte dei Repubblicani arriva Trump – islamofobo, misogino, razzista – e dall’altra, nei Democratici, un candidato che parlava in un linguaggio di speranza, contro Wall Street e la grande finanza, contro la disuguaglianza sociale – il Senatore del Vermont, Bernie Sanders – cominciava a fare paura ad Hillary Clinton, raggiungendo percentuali altissime, toccando il 40% dei consensi tra gli elettori Dem.
Due mondi diversi, quello di Trump e di Sanders, ma entrambi avevano, in campagna elettorale, un linguaggio che raccontava lo stesso romanzo, con personaggi diversi e con storie diverse, certo, ma pur sempre un romanzo che raccontava il riscatto di chi oggi è in difficoltà. I Dem non hanno compreso questo e si sono lanciati nella corsa alla Casa Bianca con un candidato storicamente presente nel panorama politico statunitense. Una figura sinonimo di stabilità, quando ormai di stabile non c’era più nulla. Eppure la Clinton avrebbe dovuto comprendere di non essere il massimo come candidato, perché avrebbe potuto vincere la sfida già 8 anni fa, alle primarie contro Obama, ma i Dem, all’epoca, preferirono l’attuale Presidente. Si può dire che la sua vittoria alle primarie sia stata un po’ costruita a tavolino dallo stesso partito, tavolino che Sanders stava per rovesciare ma, purtroppo, fermato ad un passo dal riuscirci.
Ma ora? Ora stiamo a vedere. Aggiungere altro non ha, per il momento, senso. Se sarà necessario scriverò un altro post.
Ora è il momento di attendere i primi passi di The Donald e scoprire come sarà nelle vesti di presidente.
Per i Democrats è giunto il momento di una riflessione sulle scelte intraprese in questa campagna elettorale, sul poco coraggio travestito da “history made”.
Si pensa già alle prossime elezioni? Sì ed è giunto il momento di più coraggio. Warren, dove sei?
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