Seguivo Civati sin dai tempi di Prossima Fermata Italia – l’evento organizzato assieme a Renzi. Molti degli attuali renziani d’assalto guardavano con diffidenza quel progetto. Molti non erano nel PD, erano nel centrodestra, oppure strizzavano l’occhio al qualunquismo (o entrambe le cose).
Al Congresso del 2013 decisi di supportare Pippo Civati, perché riconoscevo nel suo programma un potenziale enorme; un potenziale che ancora oggi custodisce. Invano.
Durante la fase congressuale ci spendemmo al massimo per sostenere la sua candidatura- una candidatura collettiva, che sentivamo nostra, sperando che da quel momento potesse partire un progetto alternativo a quello di Renzi; a quello dei soliti tromboni, in una eterna fase di riciclo politico.
Niente da fare. Quella speranza ci ha voltato le spalle lasciandoci in compagnia della delusione. Scottante, difficile da accettare.
Non si può pensare di cambiare il Paese senza cambiare il partito del 40%, una percentuale di consensi frutto non soltanto di Renzi, ma di tutte le componenti del PD. Chi nega ciò è in malafede, oppure non sa di cosa parla. Era più facile cambiarlo dall’interno, e non dall’esterno. Questa è logica elementare.
L’ho detto e ridetto, ormai ho perso il conto: molte delle rivendicazioni portate avanti negli scorsi mesi non erano credibili, perché non solo si basavano su una logica di contrapposizione perenne, ma anche perché – con un piede già fuori dal partito – è difficile che quest’ultimo tu riesca a condizionarlo, a far comprendere davvero che quella posizione, assunta in direzione nazionale o in Parlamento, sia frutto di una voglia di contribuire alla costruzione di un progetto politico che pianti le radici nel PD e grazie ad esso cresca.
La responsabilità di tutto ciò non è da attribuire soltanto a Civati, ma anche all’attuale maggioranza, a quel metodo poco consono per un partito che ha diverse sensibilità al suo interno. Se vinci un Congresso devi non solo realizzare quanto hai detto durante la campagna, ma devi essere capace di trarre ricchezza da quella diversità insita dentro il partito. Facile dire “abbiamo fatto più Direzioni noi in un anno che Bersani in tre“, perché il punto non è quante ne fai, ma come le fai. Molte volte le Direzioni sono state delle pure formalità, diciamocelo.
Oggi Pippo è fuori, prima di lui qualcuno lo aveva anticipato. Io non ho alcuna intenzione di muovermi da qui, dal mio partito. Sono un nativo democratico, non ho avuto nessuna tessera se non quella del PD. Prima di aderire decisi di studiarmi attentamente la sua Carta dei Valori, ed è proprio in quei valori che trovo la forza ogni giorno, in quei valori che la sua giovanile sviluppa ogni giorno.
Oggi Pippo è fuori ed io dentro. Sono deluso, me ne faccio una ragione e vado avanti, nel rispetto del risultato congressuale e nel rispetto di chi ha votato quella mozione perché voleva un PD che andasse in quella direzione e non altro.
Rispetto Pippo e la sua scelta, ma non la condivido.
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